Tesi

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI TORINO


FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA


 


TESI DI LAUREA


IN LETTERATURA ITALIANA


 


Poesie elettroniche.L’esempio di Balestrini.


 


RELATORE:Prof. Mario Ricciardi


CANDIDATO:Adriano Comai

 

ANNO ACCADEMICO 1984 – 1985


 




Indice


1. Ruolo di punta del “Verri” come laboratorio di sperimentazione.

1.1 Configurazione del campo estetico mediante negazione di idealismo e “impegno”.


1.2 Integrazione dei fenomeni artistico – letterari.


1.3 Vocazione militante della rivista.


1.4 La neoavanguardia.

Note al capitolo 1.

2. L’incontro tra le “due culture”.

2.1 Localizzazione del dibattito.


2.2 L’estetica italiana dalla creazione al prodotto.


2.3 Arte programmata.


2.4 L’almanacco Bompiani del 1962.

Note al capitolo 2.

3. Gli esperimenti.

3.1 La poetica di Balestrini.


3.2 Gli esperimenti elettronici.


3.3 Le reazioni della critica agli esperimenti.

Note al capitolo 3.

Appendice: I prodotti degli esperimenti.


Bibliografia




1. Ruolo di punta del “Verri” come laboratorio di sperimentazione.


 


1.1 Configurazione del campo estetico mediante negazione di idealismo e “impegno”.


La letteratura critica è concorde nell’assegnare alla rivista “Il Verri” un ruolo di rilievo nella trasformazione del panorama culturale italiano fra la metà degli anni cinquanta e la fine dei sessanta. L’importanza della rivista non è certamente determinata da alte tirature con conseguente successo editoriale e di mercato (1) : “Il Verri”, nella più feconda tradizione delle riviste letterarie italiane, non ha mai avuto una diffusione superiore a quella del ristretto numero degli addetti ai lavori. Durante il periodo qui preso in esame, però, esercitò una profonda influenza innovativa, contribuendo polemicamente al superamento delle tendenze e dei limiti che avevano contrassegnato il dibattito artistico e letterario nel decennio precedente, con la promozione di materiali e di piani di discussione originali rispetto a quel clima culturale.

“Il Verri (…) è stato fondato da me con un gruppo di giovanissimi amici e scolari milanesi in un anno singolare, in un anno sabbatico, di vacanza della letteratura, il 1956” (Anceschi,1967,p.5).

Così Luciano Anceschi, in una delle frequenti rivisitazioni che nei suoi “Interventi” – veri e propri editoriali, spesso di natura polemica – sono servite a puntualizzare il carattere e gli intendimenti della rivista da lui diretta.


Non è solo un’esigenza cronachistica che spinge Anceschi a sottolineare il fatto che “Il Verri” iniziasse le sue pubblicazioni nel 1956. Da tempo, infatti, la storiografia, e non solo quella culturale, ha posto questa data fra i momenti cardine nella periodizzazione della storia italiana del dopoguerra. Il ventesimo congresso del partito comunista sovietico, il rapporto segreto di Kruscev, la rivolta ungherese e la sua violenta soppressione segnano, in quest’accezione, la crisi definitiva dell’adesione meccanicamente ideologica di un vasto settore dell’intellettualità italiana ai partiti della classe operaia.


Adesione problematica, se è vero che già nell’immediato dopoguerra le difficoltà insite nel rapporto tra politica e cultura si presentavano con particolare virulenza nel dibattito fra Vittorini e il partito comunista in merito all’esperienza del “Politecnico”. In ogni caso, fra sostenitori del primato della politica ed assertori della necessità di un’ampia autonomia della cultura, intesa almeno come rispetto di una sua dimensione specifica e non immediatamente traducibile in termini ideologici, il dibattito sul ruolo storico dell’intellettualità italiana nella possibile trasformazione delle strutture sociali restava, in quel periodo, centrale.


I mutamenti provocati dagli avvenimenti del 1956 su questa situazione furono assai profondi, come ha ricordato recentemente il critico marxista Alberto Asor Rosa:

“La conseguenza più clamorosa sulla letteratura di questa sequenza di eventi (…) è la definitiva frattura di un certo rapporto tra scrittori e politici, quale s’era formato dagli anni precedenti la guerra, e poi, attraverso le esperienze della lotta antifascista e della Resistenza, fino ai dibattiti sul nazional-popolare, sul gramscianesimo, sul realismo, della prima parte degli anni ‘5O. Su questo non ci sono dubbi: il ciclo iniziato sul finire degli anni ‘3O termina qui, e termina con la fine di qualsiasi ipotesi di politica culturale, che ambisca a mettere il naso nelle questioni di merito della produzione artistica e letteraria. (…) La storia che segue è molto più complessa e sfuggente, molto meno lineare ed univoca.” (Asor Rosa,1982,p.614).

Giudizio tutto sommato condivisibile, soprattutto ove si pensi alla travagliata esperienza di una rivista come “Officina”, che in quella situazione assumeva quasi un ruolo di frontiera. Critica verso l’umanesimo storicista, attenta ai fermenti neopositivistici, e più in generale rivolta alla sperimentazione, nello specifico letterario, di nuovi moduli espressivi, la rivista di Pasolini e Fortini tentava comunque, attraverso l’utilizzo in sede di riflessione critica dei materiali di Lukàcs e di Gramsci, relativamente originali per la cultura italiana, di ridefinire un terreno d’incontro più adeguato tra la funzione culturale e la valenza politica dell’impegno degli intellettuali. E non sarà un caso se proprio verso i redattori di “Officina” saranno diretti i primi strali dei giovani collaboratori di Anceschi, ben attenti, come si vedrà, a non fare concessione alcuna sul terreno dell’autonomia della letteratura.


Nell’autunno del 1956, si diceva, nasce “Il Verri”. Sul primo numero, in un “Discorso generale”, Anceschi esprime così lo stato d’animo che ha provocato la nascita della nuova rivista:

“C’è nel secolo una diffusa proclamazione contro la letteratura; altri interessi premono, si dice; e perfino il domandarci quale sia lo stato delle cose nella narrativa, nella poesia, nella critica sembra gesto indiscreto, anzi evasivo e ozioso.


Gli amici che han costituito la società del “Verri” (…) sono convinti che la poesia e la letteratura siano attività non seconde a nessuna altra attività, del tutto degne dell’uomo, tali, anzi, che dedicare ad esse un’attenzione diretta, non tortuosamente deviata e falsata, sia, anche nelle presenti vicende, atto almeno altrettanto necessario quanto risolvere qualsiasi altro problema, non diciamo solo filosofico e morale, ma anche sociale, economico e politico.” (Anceschi,1956).

Qui Anceschi, con estrema lucidità, delinea con precisione il campo entro il quale la rivista, sia pure attraverso molte trasformazioni, si troverà ad operare durante tutta la sua esistenza. La rivalutazione della letteratura, innanzitutto, la cui esigenza, in un diverso clima culturale, era già stata affermata da Anceschi vent’anni prima, in “Autonomia ed eteronomia dell’arte”.


In quest’opera, sulla scia delle indicazioni fenomenologiche fornitegli da Antonio Banfi, il giovane Anceschi incominciava a costruire, attraverso un concreto lavoro critico sulla poesia simbolista europea, una strumentazione metodologica capace di riscattare le poetiche della “fin de siécle” e dell’inizio del novecento dall’accusa di decadentismo che veniva loro rivolta. Ciò comportava, necessariamente, una svalutazione implicita dell’impostazione crociana del problema estetico.


Anceschi criticava in Croce soprattutto la rigidità di uno schema definitorio (poesia – non poesia; poesia – letteratura) che si era mostrato inadeguato per la comprensione dell’esperienza letteraria contemporanea. Ma rispetto alle variegate posizioni del revisionismo crociano, che pure avvertivano la necessità di attenuare la rigidità di quello schema, Anceschi utilizza il proprio bagaglio fenomenologico per spingersi in una posizione più radicale, negando alla base la stessa possibilità di un approccio definitorio al territorio dell’estetica.


L’esigenza di riaffermare il valore autonomo della letteratura, affrancandola dal peso della sovrapposizione di schemi concettuali sentiti come estranei ad essa, viene riespressa da Anceschi, dopo vent’anni, in una situazione molto mutata. L’individuazione di un campo di azione praticabile per lo specifico letterario, obiettivo principale della rivalutazione dell’autonomia del fatto artistico, passa nel 1956 attraverso la negazione implicita della dimensione ideologica del ruolo degli intellettuali. Tale problematica, centrale come si è visto in tutto il decennio precedente, viene ora completamente eliminata dalla prospettiva di Anceschi nell’impostazione del progetto “Verri”.


La letteratura “ha un suo modo di vedere”, una sua specificità, che non può essere negata utilizzando criteri di provenienza diversa (storici, filosofici) nella valutazione dei fatti letterari: è in quest’ottica che nasce e si sviluppa l’idea di riscattare l’intero percorso dell’esperienza artistica delle avanguardie novecentesche dal giudizio tendenzialmente negativo che l’idealismo e la critica di orientamento marxista ne avevano dato. Si trattava, per Anceschi, di eliminare i vincoli interpretativi che avevano portato alla svalutazione di quelle esperienze, e l’approccio fenomenologico, garantendo la possibilità di realizzare un “piano di comprensione” della concreta produzione artistica, svincolato da qualsiasi opzione di carattere ideologico, assolveva egregiamente a tale compito.


Ma Anceschi non intendeva, svalutando la dimensione ideologica dell’operare artistico, assolutizzare il momento dell’autonomia dell’arte in una riproposizione aggiornata del crocianesimo. Nel citato intervento introduttivo al primo numero del “Verri”, si può leggere tra le righe la percezione della scarsa vitalità del neoermetismo, ma è soprattutto esplicita l’affermazione della necessità che il fenomeno letterario sia posto in relazione con tutto l’insieme della cultura di cui esso è l’espressione:

“In ogni modo, se è vero che la letteratura risponde di sé, ha un suo modo di vedere, è anche vero che, se essa si avvolga nelle ipotesi del proprio mito, e operi come nel vagheggiamento di una astratta condizione di sé, presto impoverisce, si esaurisce, e alla fine come dilegua. (…) la letteratura vive solo in una partecipazione piena dell’amplissimo sistema delle mutevoli relazioni in cui, di volta in volta, si attuano tutti i significati del tempo.” (Anceschi,1956).

Il linguaggio utilizzato rivela qui l’influsso del relazionalismo di Enzo Paci, allievo di Banfi al pari di Anceschi, ed alla cui rivista, “Aut-aut”, lo stesso Anceschi ha collaborato con una certa continuità. Del resto, già nel saggio del 1936 l’esigenza di considerare la letteratura come momento del più vasto insieme della vita culturale emergeva come basilare nel percorso critico anceschiano, e come costitutiva della legge di autonomia – eteronomia quale legge esplicativa del fatto artistico. Nello stesso “Discorso generale”, Anceschi proseguiva poi prospettando i termini nei quali l’attenzione per l’aspetto “eteronomo” dell’operare artistico avrebbe dovuto esplicitarsi sulle pagine del “Verri”:

“Attenti ai nuovi rapporti tra l’uomo e la tecnica (…) pubblicheremo volentieri, se si troveranno convenienti, esami delle ultime ragioni della scienza (…). Ma, soprattutto, si cercherà di dar risalto e far conto degli sviluppi della filosofia. Non mancano affatto nel nostro paese – dalla “filosofia della relazione” all’ontologismo critico, dalle correnti fenomenologiche al neopositivismo alle diverse forme di spiritualismo – nuovi modi di orientamento speculativo (…), così ci pare importante vedere fino a che punto sia legittimo il discorrere che oggi spesso si fa di integrazione, di civiltà integrata.” (ibidem).

Tutto un programma. Il rilievo posto sull’importanza della scienza, dei suoi metodi e dei suoi risultati, pur non del tutto privo di precedenti, evidenzia la novità del “taglio” impresso da Anceschi al “Verri” nel panorama delle riviste letterarie italiane. E l’attenzione per gli sviluppi delle filosofie contemporanee, dal cui elenco è significativamente assente il marxismo, resterà una costante peculiare della vita della rivista.


“Il Verri”, dunque, assume la letteratura come campo privilegiato di indagine, ma nello stesso tempo come ottica attraverso la quale poter esercitare una funzione critica e divulgativa sulle nuove tensioni speculative che percorrono l’insieme della cultura italiana. In un articolo del 1974 (2) Lucio Vetri sintetizzava così le forme della realizzazione pratica, nel contesto del “Verri”, della legge anceschiana di autonomia ed eteronomia dell’arte:

“La letteratura, nel contesto del ‘progetto’ verriano, era assunta (…) solo nell’accezione che la designava come realtà autonoma, dotata di una precisa identità istituzionale (…), come realtà riccamente articolata all’interno e con valenze aperte e progressive integrazioni verso l’esterno: in una parola, come discorso programmato sull’insieme della vita culturale.” (Vetri, 1974,p.29).

La letteratura, nell’ottica di Anceschi, diventa così il punto di partenza per un’attività non episodica di divulgazione delle metodologie filosofiche e critiche che alla redazione della rivista sembrano più adeguate a fornire nuovi strumenti di comprensione di una realtà, come viene ripetutamente sottolineato sul “Verri”, segnata dalla crisi e dall’inadeguatezza di quelli esistenti.


 


1.2 Integrazione dei fenomeni artistico – letterari.


Si è già visto come l’impostazione fenomenologica del discorso critico di Anceschi fosse, nel suo fondamentale saggio giovanile, essenzialmente mutuata dal pensiero di Antonio Banfi (1886-1957). E’ lo stesso Anceschi a ricordarlo, in un intervento teso a chiarire i presupposti teorici che stanno alla base del progetto “Verri”:

“La fenomenologia: qui, forse, proprio qui sta anche il congegno di quella rivista (…): si pensi, intanto, qui alla fenomenologia come sistematicità aperta che organizza e giustifica in sé i sistemi chiusi (…). E si consideri, poi, anche l’aspirazione al recupero di tutto ciò che diciamo, nel senso più ampio, esperienza umana in generale. (…) In ogni modo, la nozione di letteratura che ci parve stimolante e rivelatrice, e che ci permise di continuare, trova qui, e propriamente in un modo particolare di servirci di Husserl e di Banfi, o meglio di un Husserl di cui ci si servì dopo la critica di Banfi, ma anche di Banfi da cui si fecero emergere i motivi fenomenologici, trova qui i suoi fondamenti.” (Anceschi,1967).

L’influenza del pensiero di Banfi, docente di estetica e di storia della filosofia all’Università di Milano negli anni trenta, fu decisiva per la formazione di un nucleo di pensatori in seguito molto attivi nel campo della riflessione estetica, come lo stesso Anceschi, Paci, Formaggio, Dorfles. Quest’influenza va però rigorosamente limitata, almeno per quanto riguarda Anceschi, alla fase premarxista del pensiero di Banfi, e più precisamente alla sua introduzione in Italia della problematica fenomenologica, che rappresentò un indubbio elemento di rottura nei confronti dell’egemonia della cultura idealistica tra le due guerre:

L’estetica fenomenologica banfiana cessa definitivamente dalla pretesa di definire in modo esaustivo il valore estetico, di ridurre il problema dell’arte alla questione di cosa sia l’arte: ‘Non si tratta di definire cosa sia l’arte – che è una formulazione pregalileiana, scolastico-aristotelica, fondata su una concezione essenzialistica e su un metodo di realismo concettuale – ma di porre in luce la legge che meglio permette di rilevare la struttura della realtà d’arte, il problema che vi si agita in mille forme, le connette e le muove’.” (Rossi,1976,p.XXVI; la citazione è tratta da Banfi,1961,p.151).

Il rifiuto di un approccio definitorio al problema estetico, bollato come pregalileiano, è motivato per Banfi dall’esigenza, tipicamente fenomenologica, di epochizzare (sospendere il giudizio su) ogni presupposto dogmatico nei confronti della vita reale, per meglio poterla comprendere, nel percorso di una razionalità che da ontologico-metafisica tende a farsi critica. E’ un tentativo, cioè, di delineare i tratti di una filosofia (e quindi di un’estetica) che, ponendosi come sistematica razionale, operi nel senso di una progressiva integrazione delle varie forme dell’esperienza, che non le neghi né le ingabbi, ma in un certo senso vi “aderisca”. Di qui, in Banfi, lo sviluppo di un'”idea di esteticità” fondata sui poli dialetticidi autonomia ed eteronomia, principii trascendentali che nel loro costituirsi permettono di cogliere il movimento e le relazioni dei vari piani (interni ed esterni) dell’esperienza artistica.


Anceschi sviluppa questi temi banfiani sul terreno concreto della critica, in un contesto che risente anche dei contributi derivanti dal pragmatismo di Dewey (Rossi,1976), arricchendoli nel contempo della propria riflessione originale sul concetto di poetica.


Se compito dell’estetica è quello di garantire il piano di comprensione della realtà vivente dell’arte, in vista dell’integrazione dei suoi vari momenti nel quadro di una sistematica aperta, non definitiva, “in fieri”, saranno proprio le poetiche il momento storico, particolare, attraverso il quale tale processo sistematico deve articolarsi. Deducibili implicitamente dall’indirizzo complessivo delle opere di un autore o di un periodo, o, all’opposto, esplicitamente proposte come programmi o manifesti, fino a costituire il nucleo dei sistemi chiusi delle estetiche totalizzanti, le poetiche rappresentano per Anceschi il momento di riflessione pragmatica sull’operare estetico, e vanno in questo senso viste come strettamente relazionate al particolare contesto storico della cultura che le esprime.


Il terreno delle poetiche si configura così come un “piano di scelta”, contrapposto al “piano di comprensione” realizzato dall’estetica nel suo sforzo integrativo e sistematico: piani distinti ma complementari nella prospettiva critica anceschiana.


Forzando un po’ i termini del discorso, si può affermare che il piano di comprensione proprio dell’estetica sistematica e aperta garantisce il momento trascendentale dell’autonomia dell’arte, dove, nella progressiva integrazione degli aspetti particolari e delle potenzialità dialettiche delle varie poetiche, può essere rintracciato un percorso riccamente articolato ma al tempo stesso riconducibile sotto il segno della continuità. All’opposto, il momento di scelta, di frattura, costituito dalle poetiche, recuperate nella loro validità storica, particolare, dalla svalutazione che ne aveva fatto l’idealismo crociano, deve essere visto in relazione al livello concretamente eteronomo dell’operare artistico.


Questo, a grandi linee, il quadro teorico su cui Anceschi fonda il progetto “Verri”. Eliminato nell’impostazione (salvo poi recuperarlo in seguito) qualsiasi riferimento alla dinamica dei ruoli intellettuali, sottolineato il valore trascendentale dell’autonomia dei fenomeni estetici, si apre, per la rivista, la possibilità di “un’ipotesi di riassetto e di ridefinizione formale della categoria estetica, all’interno della quale trovino posto tutti i modi della scrittura novecentesca” (Sechi,1975,p.7O). Il critico marxista Mario Sechi parla, a proposito della “coerenza trascendentale del quadro teoretico fenomenologico al flusso empirico dell’esperienza”, di un “presupposto antidialettico della continuità” (ibidem), tramite il quale vengono realizzati l’appiattimento e la neutralizzazione delle contraddizioni presenti nel percorso artistico contemporaneo.


Se ciò è vero, resta però da sottolineare come l’obiettivo di integrazione perseguito da Anceschi si svolga, in concreto, su un asse segnato programmaticamente dalla nozione di crisi (dei valori, delle ideologie), e consista principalmente nel recupero attuato, sul terreno delle poetiche, di una “tradizione del nuovo” per la “poesia vivente”, nella promozione di una “letteratura aperta che ci significhi…”. Questo il “piano di scelta”, nella prospettiva teorica anceschiana, che fa del “Verri”, fin dalla sua nascita, una rivista di tendenza, e che porterà poi all’emergere, dal seno stesso della rivista, delle esperienze avanguardistiche e sperimentali dei “Novissimi” e del “Gruppo 63”. Ed è qui, sul piano concreto della militanza culturale, che il discorso sulle poetiche sviluppato da Anceschi trova la sua piena attuazione.


Discorso sulle poetiche che viene peraltro ripreso, in un’accezione un po’ diversa, in un articolo apparso sul “Verri” del giugno 1963 a firma di Umberto Eco, allievo di Pareyson ma collaboratore assiduo, in questa fase, della rivista di Anceschi. L’articolo trae lo spunto polemicamente dalle accuse rivolte all’autore, in seguito alla pubblicazione di “Opera aperta” (cfr.2.2), di privilegiare l’interpretazione descrittiva delle poetiche sottese alle opere artistiche contemporanee, rispetto all’esercizio di un giudizio critico in grado di rendere conto del loro valore estetico.


Eco ammette retoricamente la validità dell’osservazione, ma segnala come il nuovo atteggiamento interpretativo del critico non sia che una conseguenza delle profonde trasformazioni registrabili sul terreno stesso dell’esperienza artistica contemporanea, e della diversa consapevolezza che essa ha di sé:

“Per l’arte moderna il problema della poetica ha prevalso sul problema dell’opera in quanto cosa fatta e concreta; il modo di fare è diventato più importante del manufatto, la forma stessa viene gradita in quanto esempio di un modo di formare.” (Eco,1963,p.65).

Da cosa nasce questa perdita del ruolo centrale dell’opera concreta nell’orizzonte estetico contemporaneo, questo movimento verso l’astrazione rappresentata dalle poetiche? Per spiegarlo, Eco si rifà all’ampia discussione svolta da Dino Formaggio (Formaggio,1962) sul concetto di “morte dell’arte” in Hegel.


Formaggio, la cui riflessione estetica trae gli spunti, come quella di Anceschi, da un’impostazione fenomenologica, intravede nel concetto hegeliano nulla di più che una metafora indicante la necessaria trasformazione della natura dell’arte nella storia dello spirito. Trasformazione, e non morte, che sarebbe avvenuta per Hegel in seguito alla dissoluzione del rapporto io – mondo così come si era configurato all’epoca dell’arte classica.


Formaggio (e con lui Eco) critica di conseguenza l’interpretazione letterale data da Croce della metafora hegeliana, in quanto reale morte e dissoluzione dell’arte nella riflessione filosofica. E nel contempo rivaluta, come positiva e feconda, la sempre maggiore consapevolezza di sé che l’arte esprime indagando sulle proprie strutture e sulle proprie tecniche, ed interrogandosi in sede di poetica sui propri obiettivi.


Sulla base delle considerazioni di Formaggio, Eco indirizza il proprio discorso verso il terreno delle elaborazioni critico-artistiche più congeniali al gruppo di giovani collaboratori del “Verri” di cui egli stesso fa parte:

“Nell’arte contemporanea, dal romanticismo sino ai nostri giorni, il problema della poetica non si è più semplicemente disciolto in quello dell’opera fatta e compiuta, ma l’opera si è proposta come tentativo di formulare una poetica, problema di poetica, spesso trattato di poetica sotto forma di opera. La ‘poesia della poesia’, la ‘poesia sul far poesia’, la ‘poesia al quadrato’ sono esempi di questo atteggiamento.” (ibidem).

Si può notare, già da questa esemplificazione, la tendenza all’astrazione formalizzante del momento della comunicazione artistica, caratteristica della proposta critica dei giovani verriani nel periodo del loro costituirsi come gruppo. Tendenza che si espliciterà in primo luogo, appunto, in un movimento autoriflettentesi del fare poetico, del quale lo scritto di Eco, che in altro luogo aveva definito le poetiche come “programmi di produzione” (Eco,1959), denota il grado di consapevolezza teorica. Lo stesso Eco aggiunge, nell’articolo sopra citato, un passo rivelatore del clima di laboratorio culturale in cui si sentivano inseriti i collaboratori del “Verri”:

“Per verificare questo fatto (il predominio della poetica sull’opera concreta nell’arte contemporanea, ndr) si aveva da tempo in mente, Nanni Balestrini ed io, di scriver una ‘descrizione di sette poesie perdute, o mai scritte’, precisa, accurata, con tutti gli stilemi precisati e spiegati, e la struttura del verso, il gioco degli spazi, il tipo di parole usate, la punteggiatura, le parentesi (le parentesi, naturalmente); e poi vi si sarebbe aggiunto un saggio critico che spiegasse il significato di quelle poesie, il valore della loro struttura, e come e qualmente la loro struttura fosse così importante che non valeva più la pena, una volta descrittala, di scrivere le poesie. Non sarebbe stato un gioco. Anzi, si trattava di un’idea talmente seria e gravida di conseguenze che immediatamente faceva diventare inutile il progetto di scrivere la descrizione delle poesie ed il saggio: dato che l’idea di uno scritto del genere era già più significativa ed importante dello scritto stesso.” (Eco,1963).

Più avanti, comunque, si vedranno gli sviluppi e le implicazioni che l’intervento dei discepoli di Anceschi sul linguaggio e sulla letteratura porta con sé nella direzione formalizzante che ne è il tratto più caratteristico. Qui importa solo anticipare come l’opera ipotetica descritta da Eco, ed il riconoscimento della superfluità del realizzarla, si pongano come metafora possibile degli esperimenti elettronici di cui tratta il presente lavoro.


 


1.3 Vocazione militante della rivista.


L’impostazione sistematica dell’atteggiamento critico di Anceschi, mentre garantisce il riscatto dell’esperienza artistica del novecento dalle incomprensioni e dagli schematismi dell’idealismo crociano e della tradizione storicista dominante nella critica marxista, non riduce però il ruolo del “Verri” allo sviluppo di questo “piano di comprensione”. Si è già notato, infatti, come nell’elaborazione teorica di Anceschi risulti sottolineato il valore storico, attivo, particolare del concetto di poetica, il suo configurarsi, cioè, come un insieme di risposte nei confronti della situazione culturale che la esprime.


Secondo Anceschi, è proprio il metodo descrittivo-interpretativo utilizzato nel “Verri” da lui e dai suoi collaboratori, teso a far risaltare dalle opere analizzate il nucleo di poetica che le sostiene, a consentire un intervento attivo sulla “situazione”: “il fatto è che questo metodo descrittivo ha portato alle scelte più risolute che siano state prese in questi anni” (Anceschi,1974).


Non si tratta, ovviamente, di un incidente di percorso. Se infatti l’esigenza di comprensione e compresenza delle poetiche nella sistematicità dell’estetica nasce con l’obiettivo di costituire un campo specifico della sfera artistica, libero da qualsiasi contaminazione con altri piani, e segnatamente con quello sociale, è altresì vero che “Il Verri” si propone programmaticamente di operare, all’interno di questo campo, “sempre con una risposta, un orientamento, una posizione resoluta rispetto alle domande generali del tempo” (Anceschi,1956). (3).


Le scelte risolute di cui parla Anceschi si esprimono fondamentalmente in due livelli di proposta compresenti nella rivista. Innanzitutto, si è già accennato, nella realizzazione di una funzione informativo-formativa, con l’introduzione e la diffusione di problematiche meta- ed extra-letterarie (filosofiche, scientifiche, linguistiche…) provenienti da settori del pensiero contemporaneo ancora poco conosciuti nella cultura italiana. Sebbene il quadro complessivo della rivista sia ovviamente riconducibile a quello di una fenomenologia della cultura, costante è stata l’attenzione del “Verri” verso altre strumentazioni filosofiche e critiche che a quel quadro d’insieme potessero apportare contributi significativi: dal pragmatismo americano al neopositivismo, dalla teoria dell’informazione allo strutturalismo.


Una parallela e non meno significativa opera di divulgazione è stata poi effettuata dalla rivista sull’evolversi della situazione artistica nei settori delle arti figurative, del teatro, della musica, in una ricognizione sempre orientata a far risaltare i nuovi contenuti di poetica sottesi alle esperienze prese in esame (4).


Qui la presenza del “Verri” è risultata particolarmente attiva, caratterizzandone la collocazione nei confronti delle altre riviste letterarie nel senso di una maggiore attenzione ai possibili collegamenti fra le varie arti e, più in generale, agli aspetti di originalità e di rottura presenti nel complesso di “relazioni” della vita culturale.


Ma a questo livello informativo se ne affianca uno più specificamente propositivo nello specifico campo letterario. Il “Verri” ospita, già nei primi numeri, poesie degli autori che saranno poi riuniti nell’antologia dei “Novissimi” (5), o che si trovano in quei frangenti su posizioni di poetica contigue, in un orizzonte di scelta subito nettamente caratterizzato.


Giova infatti ricordare come quasi tutti gli autori presenti nell’antologia citata facessero parte, in quegli anni, del nucleo “storico” dei collaboratori di Anceschi nel progetto “Verri”, con precisi impegni redazionali all’interno della rivista, e come per alcuni di essi la presenza nel ruolo di poeti o di narratori fosse concomitante con quella svolta sul piano della riflessione teorica. Non solo. Il particolare indirizzo di poetica che “Il Verri” privilegia verso la fine degli anni cinquanta sembra trovare in qualche modo la propria fondazione nelle riflessioni critiche effettuate da Anceschi, nel corso della sua produzione saggistica, sulla poesia e sulla letteratura del novecento.


Si pensi solo, qui, alle enucleazioni svolte in “Linea lombarda” (Anceschi,1952) e in “Le poetiche del Novecento in Italia” (Anceschi,1961), indirizzate al riconoscimento di una linea “vivente” della poesia contemporanea che si configura come tendenza “oggettuale”, ipotesi critica che venne poi esplicitamente riconosciuta dai teorici della neoavanguardia come anticipatrice e feconda per lo sviluppo della nuova poesia (cfr.3.1).


Questo movimento dall’astratto al concreto, dalla funzione informativa a quella propositiva, il cui intrecciarsi è garantito da una costante tensione sul piano della riflessione critica, continuamente interagente fra i due livelli, fa emergere con chiarezza il ruolo che la rivista venne progressivamente assumendo, nel panorama culturale degli anni del “boom economico”, di vero e proprio laboratorio di sperimentazione sul terreno artistico e letterario. La strumentazione metodologica acquisita con la frequentazione delle nuove prospettive filosofiche e critiche viene applicata all’esame della concreta produzione poetica, mentre quest’ultima sostanzia quelle metodologie garantendo loro di non risolvere la propria validità su di un piano astrattamente teorico. Si ricostituisce così, benché in condizioni rese diverse soprattutto dalle modificazioni provocate sulle strutture culturali italiane dalla crescente importanza assunta dai mezzi di comunicazione di massa, quel sostegno reciproco fra critica e poesia che fu caratteristico della fase iniziale dell’ermetismo.


Nello stesso tempo, l’apertura manifestata da Anceschi verso la collaborazione di intellettuali portatori di istanze critiche eterogenee fa sì che nella rivista non si verifichi un’assenza di posizioni dialettiche, e con essa il rischio di isterilimento sempre presente in una rivista di tendenza. E’ questa ricchezza di articolazioni, ritrovabile nel “congegno” del “Verri”, che fa affermare a Lino Rossi che:

“Il senso del ‘Verri’ non si esaurisce in una semplice ripresa dell’ipotesi di una linea lombarda della poesia vivente: ‘Il Verri’ figura come un vero e proprio catalizzatore della cultura poetica di quegli anni, anzi come un vero e proprio strumento per una fenomenologia del nuovo, e immagine di essa.” (Rossi,1976,p.LVII n.).

L’apertura della rivista nei confronti del nuovo, la sua propensione all’intervento ad ampio raggio sull’insieme della vita culturale italiana, non avrebbero potuto realizzarsi adeguatamente in una struttura calzata sul modello tradizionale delle riviste letterarie. E’ quanto vuole sottolineare Anceschi in un passo del citato “Intervento” del 1967, teso a ribadire la complessità strutturale del “Verri” come strumento utile per una comprensione della polidimensionalità del reale: “Il ‘Verri’ (…), nonostante il titolo illuminista, cela in realtà una struttura barocca (…). Una rivista che nasconde in sé un certo numero di altre riviste” (Anceschi,1967). Indicazione il cui senso sarà ripreso ed ampliato in seguito da Lucio Vetri, il quale nota come essa

“rende assai bene lo spessore e il senso del lavoro che Il Verri ha coltivato e condotto, il suo ampio raggio di intervento, la varietà dei piani in cui si è articolato, con curvature specifiche di ricerca anche diverse, a seconda della diversa formazione dei numerosi collaboratori, che, nella rivista, hanno trovato un terreno di dialogo possibile in una stimolante prospettiva di unità, largamente partecipabile, proprio nel suo consentire la libertà delle sperimentazioni.” (Vetri,1974,p.33-34).

La complessa articolazione della struttura consente al “Verri” di sviluppare un progetto interdisciplinare di intervento nei più svariati settori della vita culturale, dove le relazioni tra i vari aspetti presenti sulla rivista sembrano rispondere egregiamente all’esigenza di una ricomposizione delle funzioni sempre più parcellizzate del lavoro intellettuale. “Il Verri” si è spesso presentato, nelle frequenti puntualizzazioni di Anceschi, come frutto organico di un lavoro di équipe, caratterizzato da un continuo e serrato dibattito redazionale. E proprio in questa democraticità intrinseca dell’organizzazione del lavoro intellettuale troverebbe un suo primo e fondamentale momento quella valenza (auto-) formativa per i “giovani” collaboratori di Anceschi che è stata evidenziata da un po’ tutti coloro che hanno analizzato il fenomeno “Verri”, nonché ribadita in più occasioni dallo stesso direttore della rivista.


Eliminata nel tentativo di costituzione di un campo specifico e quindi autonomo della sfera artistica, negata polemicamente a livello di poetica nella condanna riservata al realismo, la considerazione della valenza sociale della dinamica dei ruoli intellettuali viene così recuperata in positivo nella stessa costituzione strutturale della rivista di Anceschi. E’ questo un punto sul quale la critica marxista ha successivamente focalizzato la propria attenzione, evidenziando la centralità di un’analisi del ruolo del “Verri” per chi voglia comprendere le trasformazioni delle strutture culturali italiane nel dopoguerra. In un articolo di Mario Sechi, che collega l’esperienza del “Verri” alla fase di ricomposizione dei ruoli dell’intellettualità urbana ed alle ristrutturazioni provocate dallo sviluppo neocapitalistico, il “congegno” della rivista è visto come un

“piano di incontro e di coesione che accoglie, qualifica e più tardi rilancia verso gli apparati della cultura e delle comunicazioni di massa, ondate successive di giovani intellettuali (…). Spazio di crescita e di raccolta delle indeterminate domande di scienza, di organizzazione, di inserimento che scuotono frange nuove di intellettualità urbana negli anni dello sviluppo.” (Sechi,1975).

Il senso complessivo dell’operazione viene poi riassunto da Sechi in questi termini:

“è comunque nel fascio delle funzioni ‘formative’ e ‘informative’ che bisogna cercare fin dai primi numeri i caratteri specifici e originali dell’operazione verriana, giacché in esse i singoli collaboratori, che compongono il volto riconoscibile della rivista, acquisiscono ed elaborano in proprio gli elementi di una vera sistematica della produzione formale, orientandosi da un canto sul rilancio impetuoso delle moderne scienze sociali (…) e maneggiando per altro verso una insistente polemica gnoseologica nei confronti del realismo.” (ibidem).

La “sistematica della produzione formale” acquisita dai collaboratori del “Verri” permette loro, comunque, di applicare le nuove strumentazioni metodologiche e critiche ad un’analisi originale dei fenomeni culturali. Dalla rivista di Anceschi (ma non ovviamente limitata ad essa), parte così una serie di studi sui settori meno tradizionali dell’espressione artistica contemporanea (il cinema, il fumetto, il romanzo poliziesco, il design), un primo risultato della quale sta nella legittimazione culturale di questi generi espressivi. A questo ampliamento dei territori sottoposti ad indagine culturale corrisponde poi, per altro verso, il tentativo di integrazione interdisciplinare con le discipline scientifiche, cui lavorano soprattutto Eco, Barilli e Dorfles, e che mira a porre su basi nuove lo spazio per una possibile unità del sapere.


Non si tratta di un movimento contrario alla specializzazione dei ruoli intellettuali, la cui necessità viene anzi riconfermata: l’operazione viene condotta nel senso della ricerca di una maggiore adeguatezza della riflessione critica alle trasformazioni in atto nel tessuto culturale.


In quest’ambito può essere collocata l’attenzione riservata allo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa. Da un lato se ne mettono in rilievo le conseguenze negative, in termini di mercificazione estetica e di decadimento linguistico, fino a portare, come si vedrà, i poeti della neoavanguardia letteraria a negare le possibilità stesse di una comunicazione artistica non reificata. D’altro lato c’è chi, come Eco, mette in risalto la capacità dei “mass media” di unificare un mondo culturale ancora profondamente eterogeneo come quello italiano, e respinge le posizioni critiche “apocalittiche” (Eco,1964), sottolineando le possibilità di maggiore diffusione e democratizzazione della cultura fornite dai nuovi strumenti comunicativi.


E’ necessario aprire qui una breve parentesi. Gli anni del “boom economico” sono caratterizzati sul piano editoriale dall’inizio di una ristrutturazione (dell’organizzazione del lavoro intellettuale, delle collane di opere, degli indirizzi di vendita) che ha come scopo principale l’ampliamento di un mercato librario fino a quel momento relativamente modesto (Ferretti,1979). Verso la metà degli anni cinquanta viene importato dalla cultura americana il filone letterario della fantascienza, e nello stesso periodo aumentano le dimensioni del mercato dei fumetti e del genere poliziesco. Agli inizi degli anni sessanta sono databili la vendita di opere a fascicoli in edicola, il fenomeno delle enciclopedie “popolari” (“Conoscere” è del 1962), e, soprattutto, quello del libro tascabile. Favorite indubbiamente all’unificazione linguistica in atto per opera dei mass media (e, ma in prospettiva, dalla realizzazione della scuola media unica in Italia), queste operazioni editoriali contribuiscono al superamento (o, comunque, alla trasformazione) del divario esistente in precedenza tra cultura d’élite e sottocultura, almeno apparentemente risolto dalla nascita di quella che, nei dibattiti del periodo, viene chiamata “cultura di massa”.


L’impostazione fenomenologica della critica anceschiana, unita alla estrema disponibilità nei confronti dei nuovi fermenti che agitano il mondo della cultura, fanno sì che “Il Verri” non rimanga estraneo al moto di trasformazione in atto. E non è casuale il fatto che la rivista, date le premesse sistematiche e la vocazione integratrice, supporti con un intensa opera di divulgazione le indagini interdisciplinari e le analisi sui generi artistici “minori” condotte dai suoi collaboratori.


Il progetto “Verri” può così realizzarsi compiutamente nel passaggio dall’integrazione del singolo campo letterario ad una più ampia integrazione dei vari piani della cultura moderna. La cultura di massa sembra realizzare infatti l’ideale di “civiltà integrata” di cui parlava Anceschi sul primo numero della rivista, eliminando la pericolosità potenziale insita nel divario tra cultura d’élite e cultura popolare. E, nello stesso tempo, la sempre più marcata specializzazione dei ruoli intellettuali viene esorcizzata e confermata dai collegamenti interdisciplinari in cui si realizza l’unità del sapere.


 


1.4 La neoavanguardia.


Nonostante la sua fondamentale importanza, il “Verri” non segna che il punto di partenza di un più vasto ed articolato fronte di intervento nel panorama culturale italiano. Dalla rivista di Anceschi, ed appunto in virtù di quella valenza formativa che le si è vista propria, nasce, per poi svilupparsi autonomamente, un movimento di intellettuali (al quale ci si riferirà qui, empiricamente, con il termine “neoavanguardia”), che impronterà di sé e della sua parabola tutto l’arco degli anni sessanta, fino a dissolversi, o comunque a mutare di forma, nel sommovimento politico e culturale degli anni 1967-69.


Configuratosi inizialmente sul terreno poetico, con la già ricordata pubblicazione nel 1961 dell’antologia dei “Novissimi”, il movimento della neoavanguardia apre progressivamente il suo raggio di intervento a tutti i settori artistici. Non è casuale il fatto che nelle riviste del movimento (6), con maggiore intensità rispetto al modello verriano, venga a realizzarsi quel progetto di interdisciplinarietà che sostanziava l’impianto sistematico dell’estetica di Anceschi.


Benché si sia organizzato formalmente solo nell’autunno del 1963, sotto il nome di “Gruppo 63”, il movimento dei neoavarguardisti trae infatti il suo nucleo fondatore dalla cerchia più intima dei collaboratori di Anceschi (Barilli, Angelo Guglielmi, Sanguineti, Giuliani, Eco, Balestrini), circostanza che rende poco praticabile una delimitazione temporale rigorosa fra i suoi vari momenti.


In effetti, almeno agli inizi, non è possibile registrare discontinuità tra la sostanza dell’intervento culturale del “Verri” e quella dei neoavanguardisti, come ricorda da parte verriana Lucio Vetri:

“Una linea portante di continuità – quanto a motivazioni, a interessi e a strategia di ricerca – collegava, non estrinsecamente, l”esperienza’ del Verri, quella dei Novissimi e (in maniera riconoscibile, almeno per qualche tempo), quella del ‘Gruppo 63’: il tramite significativo era quell’istanza costruttiva e intellettualmente funzionale della letteratura e della cultura, che proprio il Verri aveva proposto e reso operante, e che ha orientato e garantito fruttuosa la ricerca più qualificata dello ‘sperimentalismo’ nei suoi vari campi di applicazione.” (Vetri,1974,p.61).

Il “gruppo” esce dalla logica tutto sommato ancora separata e tradizionale della rivista per sfruttare nuove possibilità di espressione, più ampie e feconde, all’interno delle strutture culturali italiane. Stabilisce da subito, tramite Nanni Balestrini, uno dei suoi elementi più pragmatici, un rapporto privilegiato (Barilli-Guglielmi ed.,1976,p.23) con l’editore Feltrinelli, che pubblicherà testi e materiali critici della neoavanguardia lungo tutto il periodo degli anni sessanta. Annovera nelle proprie file Umberto Eco, “enfant prodige” della struttura redazionale della Bompiani. Acquisisce progressivamente spazi significativi sulle terze pagine di alcuni fra i maggiori quotidiani italiani. Promuove convegni la cui risonanza giunge fino ad un pubblico non più composto esclusivamente di addetti ai lavori. Si può servire, per questo, della, forse insperata, pubblicità derivata dallo scandalo e dal risentimento con i quali la parte più retriva del mondo culturale italiano reagisce nei confronti delle sue tesi più innovative e provocatorie.


Il rapido sviluppo della fortuna del gruppo, in un momento di profonda trasformazione delle strutture culturali italiane, non sembra essere dovuto solo a questo insieme di circostanze favorevoli all’impatto di una posizione originale ed eterogenea rispetto alla vecchia società letteraria. La stessa prevalente collocazione geografica nell’area di Milano, capitale indiscussa del “boom economico” di quegli anni, e sede di un editoria disponibile alla ricerca di strade nuove di promozione del mercato culturale (l'”illuminismo lombardo” di cui parlava recentemente Eco), faceva intravedere come il legame esistente tra il gruppo e le strutture culturali in cui esso svolgeva la propria azione si configurasse in termini qualitativamente nuovi:

“Il Gruppo 63, in sostanza, cerca consapevolmente (soprattutto negli anni sessanta) un rapporto organico e funzionale con l’intera sfera della produzione culturale e dell’informazione (…), proponendosi come gruppo imprenditoriale moderno e ‘alternativo’ al vecchio establishment, come ‘gruppo di potere’ più aggiornato e agguerrito culturalmente, più adeguato alla nuova fase di sviluppo industriale della società italiana (…).


Non certo a caso l’avvento del gruppo 63 coincide con tutta la fase iniziale e tendenziale di ‘razionalizzazione’ dell’editoria italiana, e tanti suoi rappresentanti hanno una parte significativa nella trasformazione e funzionalizzazione di ruoli intellettuali che ne deriva, anticipando o prefigurando tra l’altro esperienze che avrebbero avuto la loro piena maturazione soltanto in seguito (si pensi, per esempio, al discorso sullo specialista-manager, sullo specialista-critico, ecc.).” (Ferretti, 1979, p.13O-1).

Renato Barilli ed Angelo Guglielmi, esponenti di rilievo dell’asse “teorico” del movimento della neoavanguardia, respingono, nell’introduzione ad un’antologia da loro curata sull’esperienza del gruppo 63, le “accuse esterne di spregiudicato inserimento nell’industria culturale, di cinica scalata al potere, di terrorismpo letterario freddamente programmato” (Barilli-Guglielmi ed.,1976,p.26). E puntualizzano, retrospettivamente, quelle che furono a loro avviso le caratteristiche principali di quella vicenda:

“un’organizzazione fluida ed elastica di scrittori, di operatori letterari, che si riunivano periodicamente per ‘verificare’ in pubblico le loro operazioni, le loro produzioni testuali, fuori del riparo confortevole dei rituali della recensione amica, o polemica solo in forme sottintese e ammiccanti. (…). Ma naturalmente, accanto al momento della concreta discussione sui testi, si apre, come è inevitabile, lo spazio per il dibattito generale che tenta di centrare i problemi della letterarietà, così come si danno in quella particolare situazione socio-culturale, e i modi per evitare la Scilla dell’orgoglio e la Cariddi della vergogna della poesia (e della letteratura in genere).” (ibidem,p.27).

In pratica, l’istituzionalizzazione e l’allargamento delle riunioni di redazione del “Verri”. E proprio questa continuità di fondo con la rivista di Anceschi (sintomatico l’accostamento del brano citato al “Discorso generale”, con cui il direttore del “Verri”, vent’anni prima, ne introduceva la pubblicazione) permette, qui, di non considerare pertinente una cesura temporale netta fra le due esperienze. Del resto, comuni furono in larga parte i nomi di coloro che vi parteciparono, così come gli sviluppi sui terreni della poetica e dell’impostazione critico-metodologica.


Il punto di partenza del discorso della neoavanguardia è l’analisi condotta sulla crisi del linguaggio, “l’odierno avvolgente consumo e sfruttamento commerciale cui la lingua è sottoposta” (Giuliani ed.,1961,p.18), come afferma Alfredo Giuliani nell’introduzione all’antologia de “I Novissimi”. Le cause di questa crisi vanno ricercate, per gli scrittori della neoavanguardia, soprattutto nell’azione profondamente trasformatrice esercitata dai “mass media” sul vecchio impianto linguistico e letterario, con la realizzazione di una “koiné” livellatrice funzionale alle esigenze del mercato della comunicazione.


Crisi storica, dunque, e in quanto tale apparentemente irriducibile al tradizionale meccanismo di sclerosi e reazione che, in una visione critica tutta interna all’analisi dei fenomeni artistici, regolerebbe l’avvicendarsi delle varie tendenze. Oltretutto, la crisi del linguaggio è, per gli esponenti del “Gruppo 63” anche l’indice di una crisi più profonda, che investe gli stessi modelli di codificazione e di comprensione del reale, e con essi i possibili atteggiamenti dell’artista nei confronti della sua materia. Afferma Giuliani: “Poiché tutta la lingua tende oggi a divenire una merce, non si può prendere per dati né una parola né una forma grammaticale né un solo sintagma” (ibidem).


La poesia dei “Novissimi” si pone allora come un tentativo di opposizione alla mercificazione del linguaggio, “comunicazione della negazione della comunicazione esistente”, secondo una felice formulazione critica di Gianni Scalia (in Ferrata ed.,1966,p.24).


Ogni altro atteggiamento poetico, che non fosse del pari fondato su una contestazione radicale della reificazione dei meccanismi linguistici, appariva improponibile per gli avanguardisti. Giuliani polemizzò nei confronti del realismo e della poetica dell'”impegno”, accusando Fortini e Pasolini (e con loro, di conseguenza, la proposta politico-culturale di “Officina”), di neo crepuscolarismo. Una polemica ancora più feroce venne condotta contro i tentativi di riproposizione in chiave moderna dei modi della letteratura tradizionale, che facevano in quegli anni la fortuna, tra gli altri, dei romanzi di Cassola, di Bassani e di Tomasi, definiti nel corso del primo convegno di Palermo come le “Liale degli anni ‘6O”.


L’analisi dei teorici della neoavanguardia evidenziava a questo proposito come il romanzo “di consumo”, basandosi su moduli narrativi ampiamente collaudati, può sì portare ad esiti favorevoli sul piano commerciale, ma necessariamente, o proprio per questo motivo, tende ad assumere la valenza mistificatoria del fenomeno “kitsch” (Eco,1964). Né appariva possibile, sul piano più propriamente poetico, un riaccostamento ai registri lirici tradizionali, a pena di cadere, nel migliore dei casi, in operazioni di epigonismo ermetico prive di ogni vitalità.


Tali rifiuti erano generalizzati su tutto il fronte della neoavanguardia, anche se non è possibile qui dar conto della concreta articolazione dei toni. Sul piano propositivo, invece, si delinearono due possibilità di reagire alla crisi del linguaggio ed a quella sottostante dei modelli espressivi, entrambe caratterizzate dall’assumere il linguaggio stesso, e la riflessione su di esso, come nucleo portante dell’operazione poetica.


La prima si basava sul rispecchiamento mimetico del decadimento linguistico, della sclerosi provocata dagli automatismi espressivi, ed intendeva porsi nello stesso tempo come denuncia radicale e tentativo di opposizione a tale situazione. Questa posizione poetica, esplicitata, come si vedrà, soprattutto da Nanni Balestrini, apparve agli inizi come la più radicale e significativa espressione della vocazione di rottura della neoavanguardia con gli schemi letterari tradizionali. Ma risultò poi nei fatti una risposta di corto respiro, avvalorando l’ipotesi per cui ogni attività di provocazione in campo artistico, soprattutto ove si ponga prevalentemente su di un piano di rivoluzione formale, ha un’efficacia inversamente proporzionale alla frequenza del proprio manifestarsi.


La seconda strada, pur nella diversità delle posizioni, era caratterizzata da una ricerca in positivo di nuovi modelli comunicativi ed espressivi che tenessero conto della sclerosi linguistica in vista di un suo superamento. Tecniche di destrutturazione e straniamento, ricorso allo “stream of consciousness” di joyciana memoria, plurilinguismo, asintattismo, utilizzo di strumentazioni metodologiche derivate dalla psicologia della percezione: tali indirizzi di ricerca si proponevano di scandagliare nel profondo le possibilità comunicative della lingua, non fermandosi a denunciarne la mercificazione ma tentando di estrarne potenzialità espressive non ancora reificate: Si tratta, è evidente, di innovazioni (ma soprattutto di recuperi: cfr. Fortini, in Ferrata ed.,1966,p.11-13) poste su un terreno prevalentemente formale. La giustificazione teorica di questo atteggiamento di ricerca veniva fornita da Umberto Eco in un intervento apparso sul numero 5 della rivista di Vittorini e Calvino “Il Menabò”, numero unico dedicato al rapporto tra industria e letteratura:

“Nel momento in cui l’artista si accorge che il sistema comunicativo è estraneo alla situazione storica di cui vuole parlare, deve decidere che non sarà attraverso l’esemplificazione di un soggetto storico che egli potrà esprimere la situazione, ma solo attraverso l’assunzione, l’invenzione, di strutture formali che si facciano il modello di questa situazione.


Il vero contenuto dell’opera diventa il suo modo di vedere il mondo e di giudicarlo, risolto in modo di formare, e a questo livello andrà condotto il discorso sui rapporti tra l’arte e il proprio mondo.” (Eco,1962b,p.269).

Ed è proprio su questo piano, “sperimentale”, che si situano le operazioni poetiche più significative della neoavanguardia. Non tanto, va detto, in termini di concreti risultati artistici delle opere effettivamente prodotte (tutto sommato secondari, lo si è visto, in un regime di “morte dell’arte”). Quelle operazioni vanno piuttosto giudicate in un’ottica che faccia risaltare la valenza anticipatrice, per il mondo culturale italiano, di una direzione di indagine che sarà sviluppata in seguito dalle ricerche dello strutturalismo e della semiologia. Si pensi qui solo alle analogie esistenti tra la riflessione poetica condotta dagli avanguardisti sulla cristallizzazione delle forme del romanzo tradizionale, ed il successivo (per l’Italia) sviluppo della ricerca teorica sui modelli della narrazione e della comunicazione.


Sembra anzi di poter affermare che l’azione degli esponenti delle linea “Verri” – “Gruppo 63” abbia, come suo principale esito, la realizzazione dell’allineamento della cultura artistica e filosofica italiana, (che, tra l’altro, dopo l’ambigua vicenda futurista, non aveva conosciuto le esperienze più significative dell’avanguardia europea), a quella dei paesi più sviluppati del mondo occidentale.


Il percorso della neoavanguardia può essere così visto come un importante fattore di accelerazione nel processo di recupero, già di per sé abbastanza frenetico (Asor Rosa,1975,p.1647), che la cultura italiana operava nel dopoguerra sul terreno delle scienze sociali, della filosofia, della linguistica, della critica letteraria. Gli stessi appelli contro l’ordine costituito, a differenza di quanto era avvenuto per le avanguardie storiche europee (Fortini, in Ferrata ed.,1966), non comportavano nei fatti alcuna reale vocazione di rottura nei confronti dell’insieme del quadro culturale a cui si riferivano, ma solo verso i suoi aspetti più arretrati.


Una radicale messa in discussione di quel quadro, infatti, avrebbe necessitato di una riflessione critica che si spingesse verso la determinazione delle sue radici storiche e delle sue leggi costitutive, che non si fermasse cioè alle soglie dello specifico culturale. Una simile esigenza critica trovò espressione nel tentativo di “ideologizzazione dell’avanguardia” compiuto da Sanguineti (Sanguineti,1965; Ferretti,1968 e 1979), il quale venne però a trovarsi in posizione minoritaria rispetto all’egemonia esercitata, all’interno del “gruppo”, da chi si riconosceva nella linea di autonomia dell’arte teorizzata da Anceschi.


Tipica in questo senso la posizione di Angelo Guglielmi, che nel corso del primo convegno del gruppo, tenutosi a Palermo nell’autunno del 1963, affermava la volontà della neoavanguardia di “rifiutarsi di esprimere una qualsiasi idea sul mondo” (Barilli-Guglielmi,1976,p.268): Guglielmi, anzi, si spingeva a teorizzare l’assoluta inadeguatezza di ogni visione storicistica della realtà per l’artista contemporaneo:

“si può tranquillamente affermare che la linea avanguardistica della cultura contemporanea tende a prospettarsi il mondo come un centro invincibile di disordine. Il polo positivo è sparito, determinando l’impossibilità di ogni giuoco dialettico, quindi l’impossibilità della Storia. (Mai l’uomo si è sentito maggiormente senza futuro come oggi, quando le possibilità di futuro, grazie al meraviglioso progresso della scienza, paiono tanto prossime e suggestive.) Al posto della Storia è subentrato uno spazio in cui tutto ciò che accade diventa insensato e viene falsificato.” (ibidem).

Da ciò scaturiva per Guglielmi la necessità di una linea “a-ideologica, disimpegnata, astorica, in una parola ‘atemporale'”, fondata sull'”intercambiabilità dei significati e dei punti di vista (delle ideologie)”, e che tendesse al recupero del reale “nella sua intattezza (…), nella sua accezione più neutra, nella sua versione più imparziale, al grado zero.” (ibidem,p.269).


Le posizioni di Sanguineti e di Guglielmi illustrano a sufficienza la divergenza di opinioni interne alla neoavanguardia, avvalorando in parte le ipotesi di coloro (Ferretti,1968; Esposito,1976) che hanno visto, nella costituzione del “gruppo 63”, un’unione tattica di giovani intellettuali che si muovevano alla conquista di posizioni di potere culturale. Un intervento sintomatico al convegno di Palermo venne effettuato da Renato Barilli, il quale, operando in qualche modo una mediazione fra le opposte tendenze, dimostrava nel contempo una certa chiarezza nell’intendere il rapporto tra neoavanguardia e società letteraria. Barilli dava infatti per già superato il momento della rivolta avanguardistica nei confronti del vecchio ordine letterario, affermando che dalla fase puramente distruttiva ci si stava avviando a quella della costruzione di una normalità “autre”, e recuperando così l’immagine di uno sviluppo ritmico, per stasi e reazioni, tutto interno ad una sfera culturale separata.


Non rottura sostanziale, dunque, ma un rinnovamento sia pure enfatizzato e radicale che si poneva sotto il segno della continuità, come ha osservato Giancarlo Ferretti:

“I convegni, le diverse iniziative, le operazioni polemiche, riuscivano sì molto spesso a condizionare il dibattito e a mettere in difficoltà buona parte dell’intellettualità italiana (…), ma in senso sostanzialmente passivo e strumentale, con la radicalizzazione di un equivoco bivio tradizione – avanguardia. (…) Il Gruppo 63, insomma, non si poneva come una proposta radicalmente innovativa nei confronti della vecchia società letteraria (e non), ma tendeva anzi a ricadere nella sua sfera di azione.” (Ferretti,1968,p.287-8).

Ferretti vede l’esperienza della neoavanguardia come un momento sintomatico della trasformazione dei ruoli intellettuali in campo letterario:

“non più, in sostanza, un atteggiamento di rifiuto nostalgico e passatista nei confronti della civiltà industriale (tipico di tante generazioni di intellettuali italiani), ma la ricerca di un rapporto produttivo, consapevole e organico, nei confronti di essa; non più un sodalizio di letterati, con numerose e articolate ‘mediazioni’ tra il suo lavoro letterario e la sfera della produzione editoriale, ma un gruppo intellettuale organizzato che tende a spostare la sua battaglia dalle sedi tradizionali allo stesso terreno dell’industria culturale; non più lo scrittore e intellettuale come umanista o demiurgo o profeta, ma il moderno specialista delle metodologie e dei linguaggi; non più la ‘creatività’ individuale-aristocratica di tradizione romantico-novecentesca, la letteratura e l’arte come mistica ineffabile, presunzione esortativa o consolatoria, l’opera come atto autoritario o sacrale, ma il lavoro di équipe, l’interdisciplinarietà, l”attrezzatura’ tecnica, la ricerca di ‘laboratorio’, la poesia come disciplina razionale e profana, la critica e la letteratura come analisi o progettazione scientifica.” (Ferretti,1979,p.125).

L’analisi operata da Ferretti è sostanzialmente condivisibile (per quanto sia necessario notare come alcuni di questi mutamenti si fossero già registrati a monte dell’esperienza della neoavanguardia e del “Gruppo 63”), e rimanda al problema del rapporto tra neoavanguardia e neocapitalismo. Non ci si vuole addentrare, qui, in una ricostruzione dettagliata dei termini del problema (Ferrata ed.,1966; Ferretti,1968 e 1979; Barilli-Guglielmi ed.,1976), che risulterebbe lunga e complessa.


Si può ricordare come il percorso della neoavanguardia scaturisca in gran parte dalla costituzione, operata da Anceschi, di un campo letterario separato a qualsiasi contaminazione di ordine ideologico e sociale, e come tale separazione venga riconfermata dall’astoricismo programmatico enunciato da Guglielmi. E si può ricordare inoltre un intervento sul “Verri” di Fausto Curi, altro giovane formatosi alla scuola di Anceschi, per il quale

“Fra arte d’avanguardia e società neocapitalistica non vi è più il distacco netto, la contrapposizione che esistevano un tempo tra avanguardia e società borghese. La società neocapitalistica ha ‘accettato’ l’arte d’avanguardia, e l’arte d’avanguardia ha ‘accettato’ la società neocapitalistica. Ovviamente, l’accettazione non implica affatto la rinuncia da parte di quest’ultima ai propositi di sfruttamento e di mercificazione (anzi li favorisce), né implica il ripudio dell’impegno eversivo da parte della prima. (…)


Ciò che caratterizza oggi l’avanguardia è (…) la consapevolezza dell’esistenza di una metodologia relazionale e integrata operante in un orizzonte di verità mondana, e, pertanto, la coscienza non più solo della specificità ed autonomia del settore estetico, ma della integrabilità e integratività di esso rispetto agli altri settori della vita del pensiero (Curi,1963,p.21).

Il discorso critico di Sanguineti si pone in contrasto con questa prospettiva di accettazione “mondana”; per il poeta e critico genovese, il significato storico dell’avanguardia consiste nell’esprimere “il momento dialettico all’interno della neutralizzazione segnata dalla mercificazione estetica” (in Ferrata ed.,1966,p.97). Tale momento dialettico è rappresentato per Sanguineti dalla consapevolezza dei meccanismi della mercificazione, che deve portare l’avanguardia “ideologizzata” al rifiuto di ogni separatezza della sfera culturale:

“Nel momento in cui la mercificazione estetica si costituisce come la specifica forma sociale dell’arte, si verifica anche, necessariamente, la sua compiuta neutralizzazione. (…) è ancora la mercificazione che sancisce, nella neutralizzazione, il divorzio di cultura e politica. E l’eteronomia mercantile del prodotto estetico è risarcita, filosoficamente, dal pricipio dell’autonomia (sociale e politica) dell’arte.” (ibidem,p.95-96).

Ma forse lo spunto più interessante dell’analisi di Sanguineti consiste nell’identificazione della relazione che la neoavanguardia intrattiene con il mercato ed il museo, le due istituzioni culturali maggiormente avversate dalle avanguardie storiche:

“La lotta contro il museo tende a dissolversi, nella misura in cui il museo tende a trasformarsi, intanto, direttamente, nel committente reale del prodotto estetico. Dove il monopolio privato non fa presa, interviene il capitale pubblico, che avoca a sé non soltanto l’ultima esecuzione neutralizzante, ma la produzione stessa di ciò che deve essere neutralizzato: esso ne garantisce, già all’atto della produzione, l’adeguata neutralità.


Il vocabolo di sperimentalismo può allora indicare, se così vogliamo interpretarlo, questa forma estrema di neutralizzazione originale. Al culmine della specializzazione professionale, il laboratorio è trasferito tra le pareti stesse del museo committente. E’ così bruciato fino in fondo l’arco di transizione che ospitava l’intiera esistenza delle operazioni di ogni avanguardia. (…)


E la falsa analogia con lo sperimentalismo scientifico ha pure, a questo punto, la sua verità, se insegna, come può insegnare di fatto, che le due culture sono alfine congiunte e pacificate nella medesima, affratellante condizione neutra.” (ibidem,p.94-95).


 

Note al capitolo 1.


1)Diretta ancor oggi dal critico milanese Luciano Anceschi (nato nel 1911), la rivista ha avuto, soprattutto all’inizio della sua esistenza, una vita editoriale piuttosto travagliata. A una prima serie, pubblicata dall’editore Mantovani nel biennio 1956-57, fece seguito, dopo un numero edito da Scheiwiller, una seconda presso Rusconi e Paolazzi dal 1958 al 1961, quindi una terza e una quarta presso Feltrinelli. Dal 1973 viene pubblicata in proprio dalle “Edizioni del Verri”. A questi mutamenti editoriali ha fatto riscontro un analogo avvicendarsi nella struttura redazionale (Anceschi,1967; Vetri,1974).


2)Si tratta della presentazione dell’indice analitico per autore delle annate 1956/1974, redatto da Lucio Vetri e pubblicato sullo stesso “Verri” nel dicembre 1974.


3)Rivelatoria in questo senso la domanda retorica che Anceschi si poneva in un editoriale del 1967, tutto teso a ribadire la validità militante della rivista:

“per ‘rivista di letteratura’ non si intende forse parlare di uno sguardo – di uno sguardo critico, sistematico, operante – a tutto il moto complesso della vita della cultura vivente attraverso il mobile specchio della letteratura? Di uno sguardo che è anche continuamente un intervento?”. (Anceschi,1967).

4)Si vedano, ad esempio, alcuni dei numeri speciali del “Verri”: Barocco (1958,n.2 e 1959,n.6); L’Informale (1961,n.1); Dopo l’Informale (1963,n.12); Classicità e contemporaneità (1965,n.19); L’arte programmata (1966,n.22); Teatro come evento (1967,n.25); Nuova musica (1969,n.3O).


5)L’antologia, curata da Alfredo Giuliani, apparve nel 1961 presso Rusconi e Paolazzi, con poesie di Elio Pagliarani, Alfredo Giuliani, Edoardo Sanguineti, Nanni Balestrini, Antonio Porta.


6)Marcatrè (1963/1969), Malebolge (1964/1967), Grammatica (1964/1976), Quindici (1967/1969).


 



2. L’incontro tra le “due culture”.


 


2.1 Localizzazione del dibattito.


Non è facile, parlando dell’avanguardia italiana degli anni sessanta, tralasciare un accenno al dibattito che si svolse, a partire dal secondo dopoguerra, sul tema dei rapporti tra cultura umanistica e cultura scientifica.


Come si è cercato di evidenziare in precedenza, infatti, l’analisi che ispirava il progetto della neoavanguardia aveva come principale riferimento le modifiche provocate nella struttura sociale e culturale italiana dallo sviluppo tecnologico ed industriale, e la conseguente necessità di un rinnovamento dei metodi e delle poetiche dell’agire letterario che rendesse quest’ultimo adeguato ad interpretare ed intervenire nella nuova situazione. Uno dei punti critici di tale rinnovamento veniva tra l’altro individuato nella generale arretratezza del dibattito culturale in campo umanistico, rispetto alle nuove impostazioni di carattere epistemologico derivate dalle scoperte scientifiche del novecento, e quindi dalla mancanza, da parte dell’intellettualita’ letteraria tradizionale, delle strumentazioni necessarie per conoscere e capire un mondo che, nel suo divenire, appariva sempre più complesso (1).


Non si trattava solo, ovviamente, di un problema estetico. Il ritardo della cultura umanistica (ed in modo specifico della letteratura) nei confronti del sapere scientifico, che per Vittorini datava al momento della reazione controriformistica alle scoperte della scienza seicentesca, si configurava nella situazione contemporanea come uno dei più necessari terreni di intervento contro le tendenze tradizionaliste ed élitarie della cultura italiana.


E’ l’inizio degli anni sessanta che vede l’improvviso accendersi in Italia del dibattito sulle “due culture”. L’espressione derivava dal titolo di un saggio dell’inglese Charles P. Snow, edito in Gran Bretagna nel 1959, e da quello di un successivo testo dello stesso autore pubblicato nel 1963 e tradotto in italiano nel 1964. La tesi che stava alla base del discorso di Snow era (schematicamente) la seguente: i letterati guardano ed esprimono il mondo che li circonda da un punto di vista limitato e conservatore, e per questo motivo non riescono a tradurre in un impegno positivo la loro concezione tragica della vita.


Ben diverse, per Snow, le caratteristiche degli uomini di scienza, che con razionalità e determinazione si sforzano di risolvere i problemi fondamentali della società umana, rivelando con questo la propria funzione progressista (2).


Era caratteristico dell’impostazione data al problema da Snow, e ripresa in seguito dai suoi interlocutori, il filo diretto con cui l’autore inglese connetteva fra loro la razionalità della scienza, le sue applicazioni tecnologiche e la rivoluzione industriale che ne aveva consentito e promosso l’affermazione. L’importazione del dibattito sulle “due culture” in Italia risentì di questa commistione di tematiche, provocando una divisione fra apologeti progressisti della razionalità scientifica e dello sviluppo industriale e denigratori apocalittici arroccati in difesa della cittadella delle “humanae litterae”.


Oltretutto, il fatto che una simile “querelle” scoppiasse in un clima culturale come quello inglese dimostrava che anche nelle nazioni più progredite sotto il profilo tecnologico ed industriale l’omogeneità della cultura scientifica con quella umanistica era tutt’altro che un presupposto scontato; in Italia, il tema del dibattito riguardava due realtà se possibile ancora più separate.


Dopo la critica vincente portata dall’idealismo di Croce e Gentile al positivismo, tra la fine dell’ottocento e l’inizio del nuovo secolo, le già tradizionalmente scarse relazioni tra la scienza e la cultura filosofica ed artistica italiana si affievolirono ulteriormente. In Croce, la collocazione di scienza e filosofia in ambiti distinti della dialettica dello spirito si risolveva in una effettiva subordinazione della prima alla seconda; un ruolo secondario che non a caso si ritrovava anche nella riforma dei programmi scolastici realizzata da Gentile nei primi anni del regime fascista, con le ovvie conseguenze sulla formazione intellettuale di più di una generazione di studenti e sugli sviluppi della ricerca scientifica e tecnologica italiana.


Nel clima di rinnovamento del secondo dopoguerra si fece strada, soprattutto negli ambienti intellettuali progressisti, la consapevolezza della necessità di un aggiornamento e di una maggiore diffusione delle tematiche scientifiche nella cultura italiana, anche sulla scia dell’analisi della frammentazione dei saperi prodotta dalla divisione del lavoro nel mondo contemporaneo.


Un primo intervento nella direzione di una divulgazione scientifica ad alto livello venne effettuato dal periodico “Il Politecnico”. Nel secondo numero della rivista, pubblicata dall’editore Einaudi sotto la direzione di Elio Vittorini dal 1945 al 1947, Remo Cantoni ne dichiarava l’interesse

“per tutte le tecniche, sottintendendo che sia tecnica ogni attività culturale (della poesia stessa o delle arti oltre che della politica delle scienze e degli studi sociali) quando si presenti come ricerca della verità e non come predicazione di una verità”(Cantoni,1945,p.2).

E’ da notare fra l’altro come, nel contesto interdisciplinare della rivista, i collaboratori di maggior rilievo del “Politecnico” sul versante scientifico fossero Remo Cantoni e Giulio Preti, due allievi di Antonio Banfi e quindi senza dubbio lontani in quanto a formazione culturale dall’idealismo storicista, ma nel contempo sicuramente non riducibili ad una impostazione filosofica strettamente marxista.


La breve e travagliata storia del “Politecnico” non consentì comunque sviluppi adeguati al progetto di divulgazione scientifica, che venne però ripreso, anche se in un’ottica decisamente più caratterizzata sotto il profilo ideologico, dal periodico di area comunista “Società”, a cui collaboravano tra gli altri il filosofo della scienza Ludovico Geymonat ed il matematico Lucio Lombardo Radice.


Un’altra corrente di pensiero che in quegli anni si preoccupava di ristabilire in Italia il necessario contatto tra le discipline scientifiche e quelle umanistiche era quella di indirizzo fenomenologico. Già si è visto come, tra i collaboratori del “Politecnico”, fossero proprio Preti e Cantoni, due allievi di Banfi, ad occuparsi in prevalenza di problematiche scientifiche, e va rilevato a questo proposito come quell’episodio non fosse che uno dei primi momenti dell’intrecciarsi di interessi e di rapporti tra marxismo e fenomenologia nella filosofia italiana del dopoguerra. Ma mentre l’esigenza di un riesame dello statuto delle discipline scientifiche nasceva in ambito marxista dalle sollecitazioni del materialismo dialettico e dalla critica dell’idealismo crociano, condotta a partire dai lasciti gramsciani, l’analisi dei fenomenologi seguiva altre strade.


Fu soprattutto la pubblicazione, avvenuta a partire dal 195O, dei manoscritti inediti del pensatore boemo Husserl sulla crisi delle scienze europee e sulla necessità di una loro fondazione epistemologica, ad orientare gli studi di Banfi e dei suoi allievi verso una definizione della fenomenologia come scienza capace di garantire l’unificazione dei saperi specialistici di tutte le discipline scientifiche.


In questo senso assume un particolare rilievo per il nostro tema l’elaborazione teorica di Enzo Paci, che, coniugando il pensiero di Husserl con lo strutturalismo di Lévi-Strauss, vede la fenomenologia come scienza “delle operazioni (delle modalità strutturali dell’agire umano, ndr) e dei significati”, e tenta di fondare, a partire dai concreti soggetti umani visti nel loro operare storico, “una filosofia che ha per orizzonte il senso della ‘scientificità’ in ogni campo, compreso quello letterario”:

“Si vuol dire che il soggetto delle operazioni costituisce le scienze, ne fonda le strutture tipiche e le funzioni, e che l’uomo, in quanto vive nella storia e nel mondo, deve servirsi di tutte le scienze, anche se non tutti gli uomini sono scienziati e se gli scienziati studiano soltanto una scienza o una parte di una scienza. E’ per questo che l’analisi delle operazioni è concreta e che l’orizzonte di verità non divide la ricerca umanistica da quella scientifica, anche se le scienze tanto più assolvono la loro funzione quanto più si specificano mantenendosi fedeli alla loro fondazione ed al loro significato.” (Paci,1965).

All’inizio degli anni sessanta, comunque, le problematiche riguardanti i rapporti tra la letteratura, la scienza e la società industriale assumono una rilevanza senza precedenti, tanto da porsi, ad un esame attuale, come uno dei nodi fondamentali per la comprensione delle dinamiche culturali del periodo.


Proprio nel 196O, sul secondo numero del “Menabò di letteratura” da lui diretto insieme ad Elio Vittorini, il romanziere Italo Calvino scriveva:

“Non mi pare che ci siamo ancora resi conto della svolta che si è operata, negli ultimi sette o otto anni, nella letteratura, nell’arte, nelle attività conoscitive più varie e nel nostro stesso atteggiamento verso il mondo.


Da una cultura basata sul rapporto e contrasto tra due termini, da una parte la coscienza la volontà il giudizio individuali e dall’altra il mondo oggettivo, stiamo passando o siamo passati a una cultura in cui quel primo termine è sommerso dal mare dell’oggettività, dal flusso ininterrotto di ciò che esiste.”(Calvino,196O).

Il riferimento è alle esperienze dell’avanguardia artistica degli anni cinquanta, in Italia come all’estero: l'”école du regard”, la “calata del mistilinguismo italiano nella babele dei linguaggi parlati”, la musica seriale, la pittura informale o “biomorfa”. Calvino nota in questi fenomeni culturali un silenzioso capovolgimento di segno rispetto all’ottica con la quale la prima avanguardia del novecento leggeva il rapporto tra l’individuo, la natura e la storia. Da Joyce al surrealismo, l’arte del primo quarantennio del secolo aveva fondato le proprie esperienze su una radicale messa in discussione della pacifica ed equilibrata convivenza tra l’io ed il mondo oggettivo che lo circondava, focalizzando l’attenzione sul mondo inquieto della soggettività ed esaltandone gli aspetti trasgressivi e di contestazione dell’esistente. Ora, il punto di vista della nuova avanguardia è esattamente l’opposto: il soggetto tende a sparire, o quanto meno ad essere relegato ai margini, ed il suo posto viene occupato da una presentazione della realtà oggettiva della quale si tendono a far risaltare in massimo grado i caratteri di materialità e di alterità.


Le motivazioni di questa inversione di rotta sono, per Calvino, di ordine storico e culturale:

“La resa all’oggettività, fenomeno storico di questo dopoguerra, nasce in un periodo in cui all’uomo viene meno la fiducia nell’indirizzare il corso delle cose, non perché sia reduce da una bruciante sconfitta, ma al contrario perché vede che le cose (la grande politica dei due contrapposti sistemi di forze, lo sviluppo della tecnica e del dominio delle forze naturali) vanno avanti da sole, fanno parte di un insieme così complesso che lo sforzo più eroico può essere applicato solo al cercar di avere un’idea di come è fatto, al comprenderlo, all’accettarlo.” (ibidem). (3).

Calvino, che qui non si addentra in un’analisi delle opere specifiche prodotte dal nuovo atteggiamento teorico-formale dell’avanguardia, mira ad evidenziare come il tipo di approccio avalutativo che ne sta alla base non sia adeguato per un’effettiva comprensione della realtà storica e sociale contemporanea (“è infatti la tensione ideale che s’è logorata, aprendo le dighe all’alluvione oggettiva”). Un anno dopo, sarà lo stesso Vittorini a riprendere, sia pure con toni diversi, il filo del discorso sulla capacità della letteratura italiana di interpretare e descrivere in modo adeguato la società industriale del dopoguerra.


Il quarto numero del “Menabò”, monografico, è incentrato sul tema “Industria e letteratura”, ed è aperto da un’introduzione di Vittorini che reca lo stesso titolo. Parlando del filone letterario che ha come nucleo tematico comune l’ambientazione “industriale”, l’autore nota polemicamente come “chiunque racconti di fabbriche e aziende lo faccia sempre entro dei limiti letterariamente ‘preindustriali’.”. Il mondo industriale, “che pur ha sostituito per mano dell’uomo quello ‘naturale'”, viene cioè visto ed interpretato in sede letteraria esattamente nelle stesse forme che descrivevano la società preindustriale; dalla novità tematica, alla quale ci si accosta con un tipo di approccio “mediato dall’ideologia”, non si riesce a fare scaturire una rappresentazione del mondo dell’industria che, fuori da ogni atteggiamento “disperato”, si configuri in positivo come “progetto di libertà” per l’uomo immerso nella nuova situazione:

“è innegabile che la letteratura, in confronto alla trasformazione grandiosa e terribile che avviene nella realtà intorno a noi e in ogni nostro rapporto con essa, risulta nel suo complesso storicamente più arretrata non solo della sociologia neomarxista o di alcune tecnologie (e della loro incipiente filosofia della tecnica) ma anche di attività artistiche come la pittura e la musica che almeno si sono lasciata dietro le spalle, e a cominciare da tempi in cui l”industria’ era alle prime avvisaglie, la loro dimensione melodica di vecchie complici della ‘natura’.”(Vittorini,196O).

Per Vittorini, comunque, non tutta la letteratura contemporanea soffre di questa arretratezza in uguale misura. Ne soffre meno la poesia, dove si è già verificata un’evoluzione linguistica analoga a quella avvenuta nel settore musicale ed in quello delle arti figurative. Anche per quanto riguarda la narrativa, le tendenze più avanzate sembrano essere, per Vittorini, quelle che assumono il problema della funzione del linguaggio nel mondo contemporaneo come nodo fondamentale del proprio operare artistico:

“Ad esempio i prodotti della cosiddetta ‘école du regard’, il cui contenuto sembra ignorare che esistano delle fabbriche, dei tecnici e degli operai, sono in effetti molto più a livello industriale, per il nuovo rapporto con la realtà che si configura nel loro linguaggio, di tutta la letteratura cosiddetta d’industria che prende le fabbriche per argomento.”(ibidem).

Il numero successivo del “Menabò” sviluppa il tema “Industria e letteratura” nella direzione indicata da Vittorini. Per Umberto Eco (cfr.1.4), la validità delle risposte letterarie alle trasformazioni avvenute sul piano storico e sociale va giudicata in relazione al problema del linguaggio e dei modelli formali proposti ed utilizzati. Dietro ogni modello formale, infatti, l’autore intravede l’espressione di una concezione del mondo nata in un determinato momento storico, ed adeguata alla comprensione di quello. L’utilizzo di uno dei modelli recepiti dalla tradizione per descrivere una situazione storica diversa comporta quindi, per Eco, la sovrapposizione di coordinate culturali aliene alla realtà che si intende rappresentare, e di conseguenza il risultato non potrà essere che mistificatorio.


Il discrimine tra una letteratura arretrata ed una adeguata rispetto al livello del proprio contesto storico e culturale si pone dunque qui, sulle trasformazioni inerenti allo specifico letterario, sul piano formale ancora prima che su quello tematico (è la forma, per Eco, il vero contenuto dell’opera artistica). Anche Calvino sembra accettare questo tipo di impostazione del problema distinguendo, nell’articolo “La sfida al labirinto”, due tipi di risposta dell’avanguardia alla complessità dell’esistente: la risposta dell’opposizione viscerale, esemplificata dalle opere di Samuel Beckett, dell’arte informale e della “beat generation”, e quella “razionalistica”, tra i cui esponenti più significativi l’autore cita Robbe-Grillet. E’ proprio l’approccio razionalistico, inteso come tentativo di analisi e di progettazione positiva nei confronti del linguaggio e della realtà, l’unico che Calvino giudica adeguato e non subalterno alla trasformazione storica provocata dallo sviluppo dell’industria, mentre la risposta “viscerale” cade per l’autore nel passaggio obbligato da una soggezione di tipo industriale a una soggezione di tipo biologico.


Non è possibile concludere questa veloce digressione sui rapporti fra la letteratura, la scienza e la società industriale senza un rapido accenno alle dinamiche esistenti, durante il periodo preso in esame, nel settore della critica letteraria. Nell’articolo già ricordato “Il mare dell’oggettività”, Calvino, dopo aver analizzato il mutamento di prospettiva registrato nell’opera delle avanguardie rispetto al rapporto intercorrente tra il soggetto e la realtà oggettiva, volgeva il suo sguardo preoccupato verso il mondo dei critici:

“A completare questo quadro non mancava che una critica letteraria che ponesse il suo ideale non in un criterio normativo o in una scala di valori, ma nella descrizione, addirittura nella mimesi dell’opera creativa.” (Calvino,196O).

Il discorso di Calvino era riferito soprattutto ad una deformazione della critica stilistica, allora in voga, di cui l’autore vedeva la personificazione in Pietro Citati (“Il mondo della letteratura come Citati lo vagheggia è un mondo privo di tensione storica, non ha direzione neppur provvisoria, non ha passione etico-culturale se non come in un disincantato assaporare di aromi.”). Ma è indicativo il fatto che Calvino utilizzi per la sua analisi dicotomie quali “critica descrittiva – giudizio di valore”, e “tensione storica – mancanza di passione etico-culturale”, in quanto si tratta delle stesse argomentazioni che venivano utilizzate, in quel periodo, negli appunti mossi alle prospettive critiche di Anceschi e dei collaboratori del “Verri” (cfr.1.3), e che saranno ripresi con maggior vigore al momento dell’importazione in Italia delle metodologie critiche strutturalistiche.


Per questo tipo di impostazioni, “il testo è tutto”, e le argomentazioni di tipo ideologico, sociale, storico, psicologico o comunque “extratestuale” non rivestono che un carattere secondario, quando non addirittura superfluo, nell’analisi dell’opera. Motivo, questo, certamente non nuovo nel panorama culturale italiano, se si guarda alla polemica sollevata da Croce nei confronti della critica positivista, che guardava all’opera attraverso i filtri della personalità dell’autore e delle condizioni storico-ambientali che l’avevano prodotta.


Ma mentre in Croce l’analisi dell’opera, e la rivendicazione dell’autonomia della sfera artistica, stanno a fondamento di un metodo critico di tipo normativo e classificatorio, teso com’è a configurare discrimini tra ciò che all’interno di essa è poesia e ciò che non lo è, dalla stilistica in poi l’opera viene vista come un’unità organica, ogni parte della quale concorre a determinare l’insieme.


Eliminato tutto ciò che sta a monte, il concreto prodotto artistico resta così campo di indagine primario se non esclusivo, ed il giudizio di valore non potrà essere esplicitato se non dopo un’accurata analisi formale condotta sull’opera, ed in particolare sui meccanismi di significazione che la informano e sui rapporti intercorrenti tra le sue varie parti. L’analisi – descrittiva – dello stile o della struttura assume dunque un’importanza fondamentale all’interno dell’esercizio interpretativo, che non può più basarsi unicamente sul gusto coltivato e sulla sensibilità soggettiva del critico. Dal formalismo russo in poi, una delle tendenze più significative della critica del novecento (e soprattutto di quella letteraria) è quella di esplorare la possibilità di una fondazione scientifica dell’esercizio di lettura dell’opera, di rilevarne le leggi specifiche di costituzione, per arrivare, al limite, a formulare un giudizio di valore che riposi su basi oggettive.

“Il problema (…) è quello della fondazione scientifica della critica letteraria, più che di una vera e propria scienza della letteratura: il tentativo cioè di applicare alla critica i metodi di obiettività, controllabilità, sistematicità della scienza. L’esame dei meccanismi tecnici prende il sopravvento sulle ‘degustazioni episodiche’, il significante sul significato: l’interpretazione cede il passo alla descrizione delle funzionalità specifiche.” (Petrucciani,1978,p.59).

Resta da rilevare come la ricerca, in sede critica, di una maggiore scientificità dei metodi interpretativi, si accompagni, nella storia letteraria ed artistica del novecento, alla parallela riflessione degli artisti di avanguardia sul momento di produzione delle opere, alla concreta sperimentazione formale sul piano dei linguaggi, all’evidenziazione dei meccanismi costitutivi delle opere stesse, del carattere di artificio che sta alla base dell'”atto creativo”.


 


2.2 L’estetica italiana dalla creazione al prodotto.


Se si guarda agli sviluppi dell’estetica nel secondo dopoguerra, non può essere trascurato il contributo dato da Croce, con la rivendicazione dell’autonomia del “bello” nei confronti dell'”utile” e del “vero”, che sta alla base della dialettica dei distinti, alla preparazione dei presupposti necessari alla fondazione di una teoria estetica dotata di un proprio statuto autonomo nell’ambito delle “scienze umane”.


Ma l’affermazione dell’autonomia dell’arterispetto alle altre attività dello spirito era accompagnata, in Croce, da una decisa svalutazione dell’aspetto tecnico e realizzativo inerente ai fenomeni estetici.


L’estetica crociana infatti, nella sua formulazione più matura, era fondata su una concezione dell’arte come identità di intuizione ed espressione (“contemplazione del sentimento”, o “intuizione lirica”, o “intuizione pura”), dove il momento dell’espressione (4) era da intendersi come risolto all’interno della rappresentazione lirica soggettiva. L’opera d’arte, cioè, non stava nel prodotto materiale, nel testo, nel quadro, nella sequenza di suoni che compongono una musica, ma nella precedente creazione dell’immagine relativa, nella sfera individuale della mente dell’artista.


Il momento successivo, quello della registrazione dell’intuizione pura su un supporto materiale, fisico, era senza dubbio importante ai fini della comunicazione estetica (5), ma esorbitava dall’ambito dell’arte propriamente detta, e doveva essere messo piuttosto in relazione con la sfera della tecnica, dell’utile, dell’economico.


L’emergere, nel corso degli anni cinquanta, di teorie estetiche per alcuni versi antitetiche rispetto a quella prospettata da Croce, non poté fare a meno di configurarsi come un momento di reazione o di superamento di questa svalutazione dell’aspetto tecnico operata dall’idealismo crociano:

“L’estetica italiana, dopo gli anni del predominio idealistico, si è volta verso direzioni che rivendicano, contro la svalutazione crociana del momento produttivo dell’arte, (la tecnica come puro fatto ‘economico’) i concreti caratteri di essa come processo formativo; e che, contro la sostanziale chiusura crociana nei confronti della filosofia contemporanea, si aprono invece a un intenso dialogo con la speculazione tedesca, francese, anglo-americana degli ultimi decenni.” (Vattimo,1977, p.41).

Una figura per più versi centrale nel processo di ripensamento dei fondamenti dell’estetica è quella del filosofo torinese Luigi Pareyson.


Pareyson nega che l’arte costituisca un ambito separato “a priori” dalle altre modalità dell’esperienza umana. Alla base di ogni possibile operazione del soggetto, infatti, è presente un’attività fondamentale che il filosofo definisce come “formatività”, laddove, come spiega Pareyson, “formare significa fare, ma un tal fare che, mentre fa, inventa il modo di fare” (Pareyson,1953,p.97). Ciò che differenzia l’arte dagli altri settori dell’operare umano non è altro che un differente livello di “purezza” di questa attività formativa, slegata da intenti di natura speculativa o pragmatico-utilitaristica: “L’arte vera e propria è formatività pura” (ibidem). Ma Pareyson non cade con Croce nel rischio di una svalutazione estetica della realizzazione materiale dell’opera, e quindi del concreto processo di produzione artistico:

“La formatività inerente alla vita spirituale è sempre intrinseca a un’operazione determinata, al punto che sembra non potersene disgiungere per esercitarsi per conto proprio: formare significa sempre realizzare opere determinate in un campo specifico, e cioè opere di pensiero, opere pratiche, oggetti utili, e alla forma, cioè all’opera riuscita, si giunge solo se il risultato dell’operazione è conforme alle leggi e ai fini di questa. (…) Com’è dunque possibile un formare che non formi né pensieri, né azioni, né oggetti utili, ma non formi che sé stesso? e com’è possibile una forma che non sia opera speculativa o pratica o utile, ma non sia che forma? (…) Sembra, insomma, che la specificazione dell’arte, svincolando la formatività dal contenuto e dalle leggi delle operazioni specifiche, le conferisca una libertà così sconfinata da farla precipitare nel nulla e da renderne impossibile l’esercizio.


Se non che proprio questa libertà fonda la possibilità d’un formare puro, e cioè dell’arte; perché la formatività, nell’atto stesso in cui si specifica, e precisamente per potersi specificare, liberamente adotta una materia in cui fare esistere la propria forma e liberamente si dà da sé la propria legge. La formatività diventa arte quando, non avendo nulla di specifico da formare, adotta una materia, affinché questa, una volta formata, sia forma e nient’altro che forma, e quando, non avendo nessuna legalità o finalità che possa ratificare il risultato della sua invenzione e farne una riuscita, si fa legge a sé stessa nel corso stesso dell’operazione.”(ibidem,p.1O2-1O3).

Pareyson sottolinea inoltre il fatto che il processo di formazione operato dall’artista sulla materia da lui scelta non è arbitrario, ma è anzi legato a specifici vincoli produttivi che ne condizionano la realizzazione:

“se la formatività, per specificarsi, adotta una materia e si fa legge a sé stessa, con ciò s’instaura nell’operazione artistica un rigore tanto più inflessibile e una legalità tanto più inesorabile quanto più ampia è la libertà iniziale, e ne deriva una necessità che ignora l’indulgenza e non concede tregua, una legislazione per cui tutto è categorico e vincolante e niente è lecito e permesso, un dovere di precisione che non si lascia impunemente violare e non ammette la menoma distrazione o deviazione.”.

Il processo di formazione dell’opera appare dunque a Pareyson come un susseguirsi di tentativi che l’artista opera nel plasmare la sua materia per farle ottenere la forma ottimale (“l’operazione artistica è un procedimento in cui si fa e si esegue senza sapere preventivamente in modo preciso che cosa si ha da fare e come lo si deve fare, ma lo si scopre e inventa via via nel corso stesso dell’operazione” – ibidem), ed in quest’ottica l’autore invita i critici “a considerare maggiormente la tecnica e il modo con cui un artista ha interpretato e trattato la sua materia”.


La rivalutazione degli aspetti pragmatici dell’operare artistico, ed il conseguente interesse che la teoria della formatività riserva alla sfera tecnica e produttiva, consentono a Pareyson di allargare il campo di indagine dell’estetica, “la quale solo per un’amputazione non meno letale che artificiosa è giunta a limitare la propria considerazione all’arte propriamente detta”, a tutto il mondo delle arti “pratiche” e dei mestieri.


Ma se l’importanza della prospettiva di Pareyson ci sembra fondamentale per il nostro discorso, in quanto vi ravvisiamo un tentativo di delineare l’estetica come teoria generale della produzione di forme, lo sforzo teorico in direzione di un superamento dell’impostazione crociana fu condiviso da parecchi altri studiosi, di formazione eterogenea ma spinti da una comune istanza antiidealistica.


Si è già accennato precedentemente all’esigenza, sostenuta soprattutto dagli studiosi di formazione fenomenologica, di riscattare l’esperienza artistica contemporanea dal peso delle categorie critiche discriminatorie dell’idealismo crociano (poesia – non poesia; poesia – letteratura). Si è visto come in quest’ottica Luciano Anceschi, dopo un’analisi della compresenza nel fenomeno artistico dei momenti di autonomia ed eteronomia, riprendesse l’indicazione banfiana di un’estetica come “sistematica” dell’arte, per realizzare un “piano di comprensione” delle varie possibili esperienze artistiche, ed, in primis, di quelle delle avanguardie letterarie del novecento. Il conseguente rifiuto di una definizione normativa e classificatoria, di una risposta univoca alla domanda “che cos’è l’arte?”, accomunava peraltro ai fenomenologi anche studiosi di formazione diversa, come Nicola Abbagnano o Galvano Della Volpe, e sottintendeva uno sforzo speculativo diretto alla revisione critica delle categorie fondamentali del pensare estetico.


Lino Rossi individua nel percorso dell’estetica italiana del secondo dopoguerra una tendenza che definisce come “disposizione scientifica” (7), che

“si esplica in modi differenziati, secondo vari e diversi referenti di significazione, ma sempre, si direbbe, secondo un certo referente di situazione storico-culturale, in una consapevolezza storica della fondamentale eterogeneità e plurivocità della riflessione estetica, dell’estrema varietà di piani e di direzioni di ricerca in essa implicata.”(Rossi, 1976, p.CLVI).

Una delle formulazioni più esplicite di questo appello alla “scientificità” dell’estetica proviene all’inizio degli anni sessanta da Dino Formaggio, del quale si è già (cfr. 1.2) ricordata la critica all’interpretazione crociana del concetto di “morte dell’arte” in Hegel. Formaggio, in contrasto con le impostazioni definitorie dell’estetica, propone per essa una “legge minima di campo, capace di unificare il molteplice divenire di tutta quanta l’esperienza artistica, quella attuale e quella possibile, senza parzializzarla o dogmatizzarla mai.”(Formaggio,1967). All’interno di questo campo d’indagine, il compito dell’estetica, che si vuole scientifica e di tipo analitico, e che necessita pertanto di un piano metodico rigoroso, sarà quello di delineare

“una vera e propria teoria generale dell’arte come tecnica e come operabilità significativa.


Nell’attuale momento culturale non è certamente pensabile che una scienza così tipicamente interdisciplinare (almeno in questa fase fondativa) quale è l’estetica, possa rinunciare agli apporti preziosi che alcune scienze confinanti (ed assumibili come ausiliarie) possono offrirle quali frutti di decenni di ricerche.”(ibidem).

Ma questa teoria generale dell’arte, che Formaggio definisce “Estetica speciale”, deve necessariamente rimandare per lo studioso ad un altro settore di ricerca: l'”Estetica generale”, intesa come “teoria generale della sensibilità”, o, per meglio dire, “teoria della costituzione di ogni oggetto e di ogni mondo possibile”. L’unità logica di fondo che accomuna i due settori di ricerca dell’estetica è garantita, per Formaggio, dal convergere dell’esperienza dell’arte contemporanea con quelle provenientidal mondo scientifico, almeno su un punto fondamentale, l’individuazione, cioè, di una logica del “possibile” come logica della potenzialità e progettualità essenziale del reale:

“L’estetica, sia generale che speciale, dovà dunque verificare preliminarmente la propria unità fondativa, muovendo a riconoscimento di una sua specifica logica della possibilità reale ovvero anche, si può meglio precisare, di una logica della progettualità virtuale in segni e opere, valida per ogni costituzione di senso a livello del sensibile agito.” (ibidem).

Gianni Vattimo mette molto bene in rilievo il contributo fondamentale delle discipline linguistiche nella progressiva caratterizzazione in senso scientifico dell’estetica:

“nella cultura contemporanea (…) lo sforzo di formulare in modo ‘scientifico’ i problemi delle scienze umane, e quindi anche tutta una serie di problemi considerati tradizionalmente patrimonio della filosofia (come quelli di cui si occupa l’estetica) passa attraverso l’assunzione di modelli derivati dalla linguistica. Si tratta soprattutto, nella cultura europea continentale, del modello della linguistica saussuriana. Anche nella filosofia anglosassone, già prima dell’unificazione sostanziale della semiotica anglo-americana con la linguistica strutturale che è ormai un fatto compiuto, l’istanza scientifica passa sostanzialmente, in modi diversi (semiotica pragmatistica di Peirce; neopositivismo logico; filosofia analitica) attraverso la riflessione sul linguaggio. (…).


Il linguaggio, come parole, costruzioni sintattiche, figure retoriche, è il corpo stesso della poesia; schemi di analisi linguistica si traspongono anche sul piano delle immagini, per le arti visive, e dei suoni, per la musica, ecc. In questi termini si è realizzata di fatto, nel nostro secolo, l’esigenza fatta valere inizialmente dal positivismo di sottoporre arte e poesia a un’analisi scientifico-positiva. In questo quadro, il punto di partenza dell’estetica ‘scientifica’ novecentesca si può considerare la definizione della ‘funzione poetica’ del linguaggio nell’ambito del formalismo russo, e l’analogo lavoro di individuazione delle peculiarità del linguaggio poetico nella semiotica anglo-americana.” (Vattimo, 1977, p.36).

Occorre ricordare a questo proposito come uno dei sintomi della trasformazione dell’estetica di cui stiamo parlando fosse appunto l’opera di divulgazione, nella cultura italiana, delle teorie linguistiche citate da Vattimo, nonché dei contributi che arrivavano all’estetica da parte di altre discipline, come ad esempio la psicologia della percezione o la nascente teoria delle comunicazioni di massa. Quest’importante opera di divulgazione avvenne in un primo momento soprattutto sulle pagine di riviste specializzate, ma sfociò all’inizio degli anni sessanta nella traduzione e pubblicazione delle opere più significative della linguistica del novecento, favorita da un lato dalla presenza all’interno di alcune case editrici di consulenti editoriali partecipi delle nuove tendenze (Eco alla Bompiani ne è l’esempio più lampante), dall’altro dall’insorgere della “moda” strutturalista.


Nel 1962 vengono pubblicati, a distanza di un mese l’uno dall’altro, i saggi “Simbolo comunicazione consumo” ed “Opera aperta”, a firma rispettivamente di Gillo Dorfles ed Umberto Eco. Curiosamente (ma non troppo), struttura e contenuti dei due lavori sono molto simili (vi è addirittura, in entrambi, un breve capitolo dedicato all’estetica Zen, valorizzata per i suoi caratteri di non-finitezza e di apertura all’apporto del caso nel processo di realizzazione artistica). Anche i riferimenti teorici di fondo sono più o meno gli stessi: fenomenologia, teoria della formatività pareysoniana (soprattutto in Eco), utilizzo dei contributi di altre discipline scientifiche (linguistica, psicologia della percezione, fisica).


I saggi in questione, comunque, ci sembrano particolarmente interessanti sotto due profili: la riflessione sul momento della fruizione del prodotto artistico e l’utilizzo, in sede estetica, della teoria dell’informazione. Ma mentre il saggio di Dorfles, pur stimolante soprattutto per l’utilizzo delle teorie sopra ricordate nell’analisi del progressivo accentuarsi del fenomeno dell’obsolescenza dei consumi, nella società delle emergenti comunicazioni di massa, è a nostro avviso piuttosto frammentario e poco organico, riteniamo opportuno seguire per sommi capi il ragionamento che sta alla base di quello di Eco.


“Opera aperta” è una raccolta di saggi ed articoli scritti in differenti periodi, e per lo più già pubblicati su riviste, che vertono attorno ad un tema principale: il ruolo dell’interpretazione all’interno del processo della comunicazione artistica (8).


Eco assolutizza la concezione pareysoniana della non-univocità del momento interpretativo, per farne un criterio su cui poggiare il giudizio di validità estetica:

“la forma è esteticamente valida nella misura in cui può essere vista e compresa secondo molteplici prospettive, manifestando una ricchezza di aspetti e di risonanze senza mai cessare di essere se stessa (…). In tale senso, dunque, un’opera d’arte, forma compiuta e chiusa nella sua perfezione di organismo perfettamente calibrato, è altresì aperta alla possibilità di essere interpretata in mille modi diversi senza che la sua irriproducibile singolarità ne risulti alterata. Ogni fruizione è così una interpretazione ed una esecuzione, poiché in ogni fruizione l’opera rivive in una prospettiva originale.” (Eco, 1959).

Ma se è vero che le opere d’arte di ogni tempo presentano costituzionalmente questi caratteri di “apertura”, il segno di novità che caratterizza l’esperienza artistica del novecento sta, per Eco, nel fatto che per l’artista d’avanguardia l’ampliamento del “grado di apertura” diventa intenzionale e programmatico; assurge, cioè, a livello di poetica:

“La poetica dell’opera ‘aperta’ tende, come dice Pousseur, a promuovere nell’interprete ‘atti di libertà cosciente’, a porlo come centro attivo di una rete di relazioni inesauribili, tra le quali egli instaura la propria forma, senza essere determinato da una necessità che gli prescrive i modi definitivi dell’organizzazione dell’opera fruita.” (ibidem).

La molteplicità delle prospettive di fruizione realizzata nell’opera “in movimento” (con questa espressione Eco si riferisce qui soprattutto alla musica colta contemporanea), non sminuisce però affatto il ruolo dell’autore:

“Questi, in una poetica dell’opera in movimento, può benissimo produrre in vista di un invito alla libertà interpretativa, alla felice indeterminazione degli esiti, alla discontinua imprevedibilità delle scelte sottratte alla necessità, ma questa possibilità cui l’opera si apre è tale nell’ambito di un campo di relazioni. Come nell’universo einsteniano, nell’opera in movimento il negare che vi sia una sola esperienza privilegiata non implica il caos delle relazioni, ma la regola che permette l’organizzarsi delle relazioni.” (ibidem).

L’ambiguità espressiva, proprio nel senso di mancata imposizione di un’interpretazione determinata, la non-finitezza, la disponibilità verso l’intervento del caso nel processo realizzativo, in sintesi il “grado di apertura” dell’opera, assumono quindi un’importanza fondamentale in sede di poetica, al punto di assurgere al ruolo di “significato” principale dell'”opera in movimento”. L'”apertura”, infatti, non ha un valore esclusivamente formale: l’opera, la sua struttura, il tipo particolare di rapporto tra soggetto e mondo che esprime, sono da vedersi in relazione alle strutture culturali e scientifiche del mondo che l’ha prodotta. E questa relazione è, almeno in senso lato, di tipo conoscitivo:

“E’ (…) sempre arrischiato sostenere che la metafora o il simbolo poetico, la realtà sonora o la forma plastica, costituiscano strumenti di conoscenza del reale più profondi degli strumenti apprestati dalla logica. La conoscenza del mondo ha nella scienza il suo canale autorizzato, ed ogni aspirazione dell’artista alla veggenza, anche se poeticamente produttiva, ha sempre in sé qualcosa di equivoco. L’arte, più che conoscere il mondo, produce dei complementi del mondo, delle forme autonome che s’aggiungono a quelle esistenti esibendo leggi proprie e vita personale. Tuttavia ogni forma artistica può benissimo essere vista, se non come sostituto della conoscenza scientifica, come metafora epistemologica: vale a dire che, in ogni secolo, il modo in cui le forme dell’arte si strutturano riflette – a guisa di similitudine, di metaforizzazione, appunto, risoluzione del concetto in figura – il modo in cui la scienza o comunque la cultura dell’epoca vedono la realtà.” (ibidem).

Ci sembra che Giangiorgio Pasqualotto colga molto bene il senso della trasformazione dell’arte contemporanea nella direzione di una maggiore intenzionalità razionale e riflessiva, quando, analizzando il significato del concetto di “accidentalità casuale” nella “morte dell’arte” hegeliana, afferma che:

“La Zufaelligkeit (accidentalità casuale, ndr) parte dunque dalle ultime propaggini della forma d’arte classica, attraversa l’intero territorio dell’arte romantica divenendo sempre più potente, fino a costituire il principio di dissoluzione anche di questo periodo e ad informare di sé, in prospettiva, l’intero sviluppo dell’arte post-romantica. Accompagnata dal termine ad essa relativo, rappresentato dalla Soggettività, essa traccia le linee fondamentali lungo le quali si svolge tutto il tragitto dell’arte e dell’estetica contemporanee.


Entrambe infatti si collocano al sorgere di un irresistibile processo di autoconsapevolezza, di un inarrestabile movimento verso una sempre più profonda criticità riflessiva all’interno della stessa tecnica artistica. E’ con la dissoluzione della ‘sacralità’, della contemplatività, dell’ ‘aura’ propria dell’arte classica che nasce quel ‘conatus intelligendi’ che connota gran parte delle forme artistiche della realtà contemporanea.” (Pasqualotto,1971,p.95).

Ma l’aspetto che Eco tende maggiormente ad evidenziare nel suo saggio è l’impatto che le nuove forme d’arte, intenzionalmente “aperte”, producono sul rapporto tra produzione e fruizione estetica:

“La poetica dell’opera in movimento (come in parte la poetica dell’opera ‘aperta’) instaura un nuovo tipo di rapporti tra artista e pubblico, una nuova meccanica della percezione estetica, una diversa posizione del prodotto artistico nella società; apre una pagina di sociologia e di pedagogia, oltre che una pagina di storia dell’arte. Pone nuovi problemi pratici creando situazioni comunicative, instaura un nuovo rapporto tra contemplazione e uso dell’opera d’arte.” (Eco,1959).

Il valore prodotto dall'”apertura” intenzionale e programmatica, argomenta Eco con riferimento alla plurivocità dei piani semantici riscontrata nel “Finnegans Wake” di Joyce, “non si identifica, teoricamente, col valore estetico”, ma non può essere trascurato o trasceso all’atto della fruizione dell’opera, in quanto

“caratterizza le forme che lo realizzano in modo tale che la loro riuscita estetica non può più essere fruita, valutata e spiegata se non facendo riferimento ad esso (in altri termini non si può apprezzare una composizione atonale se non valutando il fatto che essa vuole realizzare una sorta di apertura nei confronti dei rapporti chiusi della grammatica tonale, ed è valida solo se vi riesce in modo eminente.” (Eco,1962a,p.93).

Eco definisce questo valore aggiuntivo come “accrescimento e moltiplicazione delle significazioni possibili di un messaggio”, ma anche come “incremento di informazione”. Ed a questo proposito inserisce nel suo saggio un capitolo che tratta il problema dell’applicabilità della teoria dell’informazione all’estetica.


“La teoria dell’informazione – afferma – tende a computare la quantità di informazioni contenuta in un determinato messaggio” (Eco,1962a). In prima analisi, il livello di informazione è tanto più alto quanto maggiore è il tasso di originalità del messaggio, cioè la sua improbabilità rispetto al sistema di attese del destinatario e, insieme, rispetto alle alternative teoricamente possibili prima della formulazione, ma scartate all’atto della costituzione del messaggio stesso.


La teoria dell’informazione utilizza in quest’ottica un concetto, quello di “entropia”, mutuato dalla termodinamica, dove (nel secondo principio di Clausius) esso serve a misurare gli stati di equiprobabilità (o di “disordine elementare”) verso cui tendono i processi fisici naturali. Come ricorda Eco, per Norbert Wiener, padre della cibernetica, “l’informazione è misura di un ordine, e di conseguenza la misura del disordine, e cioè l’entropia, sarà l’opposto dell’informazione”. In altri termini, se l’entropia del linguaggio consiste in un affastellarsi disordinato di lettere, sillabe, parole, un messaggio definito e comprensibile (e pertanto “ordinato”) risulta essere un evento statisticamente assai improbabile. Ma Eco non concorda con Wiener quando questi considera come sinonimi “informazione” e “significato”, collegando entrambi alla nozione di improbabilità ed opponendoli all’entropia.


Per Eco, che com’è logico ha interesse più che altro per l’utilizzo della teoria dell’informazione nell’analisi dei messaggi di natura poetica, bisogna tenere presente che, nella costruzione di un normale messaggio comunicativo, intervengono dei fattori di ridondanza che garantiscono la comprensibilità del significato, riducendo al minimo la potenzialià disturbatrice dei “rumori” di fondo (interferenze o comunque deformazioni del messaggio nel suo percorso dall’emittente al ricevente). Tale ridondanza, largamente utilizzata nella comunicazione quotidiana, va però a scapito dell’originalità dell’informazione, e più precisamente della quantità di informazione presente in ogni singola componente del messaggio.


L’originalità del messaggio poetico, infatti, consiste proprio nell'”imprevedibilità rispetto ad un sistema di probabilità“, quello determinato dalle convenzioni presenti nel codice linguistico, in uno “scarto” rispetto ad esso; è quindi “associata non all’ordine ma al disordine, almeno a un certo tipo di non-ordine-abituale-e-prevedibile.” (ibidem).


Va da sé che, al limite, un messaggio che veicolasse una quantità troppo elevata di informazione, e quindi di improbabilità rispetto al codice del ricevente, annullerebbe ogni possibilità di comprensione del significato del messaggio stesso. Informazione e significato possono dunque essere considerati, per gli studiosi che applicano la teoria dell’informazione al campo estetico, come due variabili in rapporto inversamente proporzionale: alla massima comprensibilità del significato di un messaggio si associa inevitabilmente un minimo di informazione, e viceversa.


Per Eco questo contrapporsi di intelligibilità e libertà informativa è un momento costitutivo del processo estetico – comunicativo, “una condizione stessa della dialettica produttiva e della lotta continua de l’ordre et de l’aventure, come avrebbe detto Apollinaire” (ibidem). Una tensione dialettica che, se caratterizza l’arte di ogni tempo, è però portata al massimo livello proprio nella produzione delle avanguardie, e particolarmente in quella che si può ricondurre alla poetica dell'”opera in movimento”:

“ogni rottura dell’organizzazione banale presuppone un nuovo tipo di organizzazione, che è disordine rispetto alla organizzazione precedente, ma è ordine rispetto a parametri assunti all’interno del nuovo discorso. Tuttavia non possiamo non disconoscere che mentre l’arte classica si attuava contravvenendo all’ordine convenzionale entro limiti ben definiti, l’arte contemporanea manifesta tra le sue caratteristiche essenziali quella di porre continuamente un ordine altamente ‘improbabile’ rispetto a quello da cui si muove. (…) Il poeta contemporaneo propone un sistema che non è più quello della lingua in cui si esprime, ma non è neppure quello di una lingua inesistente: introduce moduli di disordine organizzato all’interno di un sistema per accrescerne la possibilità di informazione.” (ibidem).

Ci sembra comunque, anche sulla base di queste conclusioni, di poter sostenere che l’utilizzo dei concetti della teoria dell’informazione in “Opera aperta” sia da intendersi più come sostegno e conferma ad una determinata tendenza (o “poetica”) dell’arte contemporanea che non come un effettivo momento di novità nell’impostazione teorica di una possibile “scienza estetica”. Può essere interessante, invece, seguire gli sviluppi che tali concetti suscitavano in quegli anni nell’elaborazione teorica del filosofo tedesco Max Bense, la cui opera veniva esaminata con attenzione da Dorfles nel saggio citato.


Per Bense (come già per Banfi: cfr.1.2) esistono due tipi possibili di estetica: quello filosofico, da lui catalogato come “hegeliano”, e quello “galileiano”, al quale appartiene l'”estetica moderna”, dal momento che “si tratta di una disciplina scientifica specializzata, non di un’estetica fondata solo sulla filosofia.” (Bense,1965,p.447).


Bense rileva come non sia possibile stabilire una netta distinzione tra il processo di produzione artistico ed il processo di produzione tecnico, almeno dal punto di vista delle modalità ontologiche, visto che entrambi sono caratterizzati dalle modalità della “realtà” (la loro imprescindibile dimensione fisica e concreta, “materiale”) e della “correaltà”. Si tratta, per quest’ultima, di una modalità supplementare, aggiunta da Bense allo schema delle modalità ontologiche di Nicolai Hartmann ed Oskar Becker, e che indica il trascendimento della realtà naturale operato dall’attività umana, ed il conseguente passaggio dal “dato” al “prodotto” (cfr.Pasqualotto,1971,pp.7-14). Solo, mentre si può parlare per la produzione tecnica di una correaltà caratterizzata dalla “necessità”, la correaltà artistica è caratterizzata dalla “non-necessità”, dalla “casualità”.


Se si traduce questa affermazione nei termini della teoria dell’informazione, si può dire che la produzione artistica veicola, proprio in quanto contrassegnata dalla “non-necessità” e dalla “casualità”, un tasso di improbabilità superiore a quello della produzione tecnica, e quindi un maggiore peso informativo. Come scrive Giangiorgio Pasqualotto,

“E’ facile vedere che la differenziazione tra processi fisici e processi estetici non si fonda sulla diversa qualità di informazione che essi offrono, ma sulla diversa quantità di informazione che essi realizzano. (…) Tale alta quantità di informazione, intrinseca alle situazioni e agli eventi estetici, è proporzionale alla quantità di Improbabilità del sistema in cui essi si attuano: la differenziazione tra processi del mondo fisico e processi del mondo estetico si fonda sulla diversa valenza di Improbabilità che essi detengono. Ciò che costituisce quindi la soglia di delimitazione tra i due tipi di processi si associa a quel fattore differenziante la sfera della Correaltà necessaria dalla sfera della Correaltà casuale, che è appunto la Casualità; la quale a sua volta rimanda direttamente alla nozione di Improbabilità.” (Pasqualotto, 1971, p.21).

Ma se l’informazione veicolata da un prodotto estetico può essere misurata, altrettanto può avvenire per la sua “ridondanza”, associata da Bense al concetto di “ordine” ed a quello , più tradizionale, di “stile”. Bense accetta la formulazione della “misura di esteticità”, proposta dal matematico americano David Birkhoff, secondo la quale


M = O / C


laddove M = misura estetica, O = ordine e C = complessità. Per Bense,

“Non è difficile ammettere che ciò che Birkhoff chiama ‘complessità’, non è altro che la quantità statistica di informazione e che ciò che egli chiama ‘ordine’ fa parte delle caratteristiche ridondanti necessarie perché l’informazione sia riconosciuta come tale e quindi capita. Se deve essere percepibile come ‘ordine’, ogni organizzazione deve infatti essere identificata come tale.” (Bense, 1965, p.463).

E la misura estetica può quindi essere determinata come


M = ridondanza soggettiva / informazione statistica


E’ evidente come, a questo proposito, sia indispensabile una corretta scelta dei parametri da utilizzare per il computo della misura estetica, come lo stesso Bense sente il bisogno di sottolineare:

“Per il procedimento tecnico è importante, come si è già detto, che tanto l’ ‘informazione’ quanto la ‘ridondanza’ siano misurate per mezzo dell’ ‘entropia’. Non ci interessa, in questa sede, enunciare le relazioni matematiche di cui si deve tener conto; il seguente aspetto generale gioca invece un ruolo importante: l’ ‘entropia’ misura, come si è già detto, una situazione disordinata oppure ordinata di importanza, come è stato anche già detto, decisiva per la ‘realtà estetica’ e per la ‘realtà fisica’. Questo stato di ‘disordine’ o di ‘ordine’ si riferisce naturalmente a degli elementi che compaiono con una certa distribuzione. Per i testi, si può parlare di ‘entropia delle sillabe’ o di ‘entropia delle parole’ o di ‘entropia dei periodi’. Le sillabe possono venire individuate numericamente dal numero delle lettere, le parole dal numero delle sillabe e le frasi dal numero delle parole. Per analizzare un quadro si deve scomporlo in elementi servendosi di un reticolo piano, considerare ogni elemento del reticolo come un elemento di distribuzione (del colore, del contrasto, della copertura, ecc.) individuarlo numericamente e calcolare la corrispondente entropia (di colore, di contrasto, ecc. del quadro).” (ibidem,p.464).

Bense sottopone ad un analogo processo di formalizzazione il giudizio di valore estetico, rilevandone l’omologia con il giudizio di valore logico (“bello” – “vero”; “non bello”- “falso”), e quindi trasferendo in sede estetica l’utilizzo che, nella logica contemporanea, viene fatto dell’algebra binaria di George Boole per la determinazione della validità delle proposizioni logiche. Per seguire la piana esposizione di Pasqualotto,

“se esiste un rapporto di omologia strutturale tra giudizio estetico e giudizio logico, in quanto entrambi sembrano operare in base a una comune selettività binaria, e se il giudizio estetico che ‘media’ ogni ‘tratto’ della produzione artistica comporta anche un giudizio sulla realtà artistica, appare allora evidente che tutto il complesso di operazioni che regola la formatività artistica è riducibile ad una serie di scelte alternative del tutto corrispondenti a quelle che presiedono al funzionamento dei calcolatori numerici a due soli stati. Questa corrispondenza appare ancora più evidente qualora si faccia diretto riferimento ai risultati delle ricerche che hanno posto in rilievo la possibilità di ridurre le proposizioni logiche e le loro interrelazioni significative a un calcolo rigorosamente formale in base al simbolismo logico-algebrico ideato da Boole. Su tali basi si può osservare che se il giudizio estetico è riconducibile al giudizio logico e se il giudizio logico è a sua volta riconducibile a un’alternativa binaria algebricamente simbolizzabile e quantitativamente scomponibile, allora lo stesso giudizio estetico, che continuamente ‘controlla’ il crescere di un’opera d’arte, è riconducibile ad una logica dicotomica matematicamente descrivibile.


In altri termini, se al giudizio estetico rappresentato dal binomio ‘Bello / Non Bello’ corrisponde il giudizio logico rappresentato dal binomio ‘Vero / Falso’ e se al giudizio logico si possono far corrispondere le bipolarità ‘Sì/No’, ‘O/1’, ‘Chiuso/Aperto’, ‘Entrata/Non entrata’, proprie di un meccanismo elettronico, ecco che il giudizio estetico, per secoli rimasto chiuso nelle recondite alchimie della creazione artistica, viene ora ricondotto a una semplicissima operazione ‘logica’.” (Pasqualotto, 1971, p.26).

Ma se il processo di produzione estetico è descrivibile nei termini di un'”estetica analitica” e “matematica”, e se lo stesso giudizio di valore è formalizzabile, e quindi determinabile con rigore e precisione sulla base di operazioni logiche, si rende possibile per Bense il passaggio da questo livello “descrittivo” a quello di un’estetica “generativa”, intendendo con tale formula

“la globalità delle operazioni, delle regole, dei teoremi che, applicati a un insieme di elementi materiali a funzione segnica, riescono a produrre (…) stati estetici (distribuzioni o piuttosto configurazioni) in modo cosciente e metodico. L’estetica generativa è in questo senso un analogon della grammatica generativa, in quanto la prima fornisce realizzazioni di strutture estetiche, come la seconda proposizioni derivate da uno schema grammaticale.” (Bense, 1965, p. 468).

Lo scopo dell’estetica generativa deve essere, per l’autore tedesco, quello di garantire e realizzare le condizioni per una produzione programmata di strutture espressive, che veicolino un tasso di informazione prestabilito (o, in altri termini, una determinata presenza di caratteri originali ed innovativi). Si può parlare, a questo proposito, di una “produzione artificiale” degli stati estetici:

“si può dire che la produzione artificiale per mezzo di teoremi e di programmi di probabilità che derogano da una norma è il motivo centrale dell’estetica generativa e dei suoi progetti.


L’estetica generativa è dunque un’ ‘estetica di produzione’. Essa, con lo smembrarla in un numero finito di passaggi singoli distinguibili e descrivibili, rende possibile la produzione sistematica di stati estetici.” (ibidem,p.471).

Tutto ciò porta Bense a formulare in termini nuovi il rapporto dialettico, tipico dell’operare artistico, fra tradizione e innovazione, fra necessità e libertà, ed a riconsiderare l’opportunità dell’applicazione del criterio di “originalità” ai prodotti dell’arte artificiale:

“Si nota che la produzione meccanica dell’improbabilità degli stati estetici è resa possibile da un combinarsi metodico di programma e caso. Proprio attraverso questo fatto la condizione che viene richiesta agli oggetti estetici, e cioè di essere imprevedibili, si collega con la loro costruttività pianificata. E’ chiaro che con l’introduzione del caso, con l’aiuto dei cosiddetti generatori di casualità, è impossibile anche alle macchine di ripetere un prodotto in maniera identica. Resta così salvo il carattere di singolarità anche per l’oggetto estetico prodotto meccanicamente, si manifesta una nota di pseudoindividualità, di pseudointuizione.” (ibidem,p.476).

Ancora un’osservazione. Il processo di formalizzazione a cui Bense sottopone le categorie del pensare estetico si fonda necessariamente, come nota Pasqualotto, sulla

“liberazione dall’oscurità dei contenuti: non solo totale autonomia del mezzo artistico, ma sconvolgimento del rapporto semantico dell’artista mediante la perdita del Rappresentato, attraverso la scomparsa dei ‘denotata’ oggettivi. In tal modo si passa dall’estetica metafisica all’estetica tecnologica, anzi dalla metafisica, sempre orientata al dato, al Gegebene, all’estetica, sempre orientata al prodotto, al Gemachte. Lo sviluppo dell’estetica si attua dal bello naturale al ‘Bello artistico’ e da questo al Bello tecnico, e culmina con la totale emarginazione del Significato, con la fine del Semantico.” (Pasqualotto, 1971, p.39).

Ne risulta quella che Bense definisce come “emancipazione” dei materiali costitutivi (forme, colori, suoni, parole…), sui quali, come l’autore tedesco riscontra a proposito dell’arte informale e della musica “colta” contemporanea, viene ad esercitarsi direttamente il processo di produzione estetica:

“Fa dunque parte dei problemi della produzione artistica moderna quello di eliminare la fase semantica di passaggio fra il supporto fisico e la situazione estetica e di far coincidere l’esteticità dei materiali direttamente con la loro fisicità, di essere insomma una produzione artistica materiale e non semantica.” (Bense, 1965, p.45O).


 

2.3 Arte programmata.


Nel corso del periodo che stiamo trattando, e principalmente negli anni che vanno dal 1959 al 1963, si sviluppò, nell’ambito delle arti figurative, una tendenza (una “poetica”) che viene oggi ricordata sotto il nome di “arte programmata”, della quale fecero parte artisti di varia provenienza, ma soprattutto italiani, francesi, spagnoli e sudamericani.


In una schematica periodizzazione dei movimenti delle avanguardie artistiche del novecento, tale tendenza può essere considerata come un momento di reazione all'”informale” (9), che aveva esercitato un certo predominio sulla scena delle arti figurative nella seconda metà degli anni cinquanta. Così la interpretarono i critici; così la vissero soggettivamente gli stessi esponenti del movimento, che intendevano contrapporre, al “gesto” immediato e solo in apparenza irridente degli epigoni dell’informale, una pratica artistica fondata sulla razionalità e sulla metodicità della ricerca.


Non a caso, nei manifesti e nelle dichiarazioni rese allora dagli artisti appartenenti a “Nuove tendenze” (“arte programmata” è una definizione attribuita al movimento solo in un secondo periodo, in occasione della mostra collettiva organizzata a Milano dall’Olivetti nel 1962), i richiami più frequenti alla tradizione artistica del novecento sono diretti al Bauhaus, al costruttivismo russo, al De Stijl olandese: esperienze, cioè, contrassegnate da una stretta connessione di razionalità progettuale ed impegno sociale.


L’impostazione di fondo che emerge dalle dichiarazioni di allora è simile a quella prospettata da Vittorini e Calvino a proposito del rapporto fra letteratura e industria (cf.3.1): qualsiasi atteggiamento artistico di rifiuto indiscriminato della nuova realtà tecnologica, sociale e culturale è considrato anacronistico, ma soprattutto perdente. Come dimostrato dall’esperienza dell’informale, l’atto trasgressivo, al di là di ogni soggettiva autogratificazione romantica, non può che soggiacere al destino della mercificazione dell’arte e dei linguaggi artistici nella società industriale contemporanea, con il rapido incanalamento delle opere degli “oppositori globali” nel percorso istituzionalizzato che va dalla mostra – mercato al museo.


L’unica possibilità di non abbandonarsi passivamente alle forze che trasformano il mondo diventa, allora, quella di esplorare alla radice le possibilità di libertà residue negli interstizi del sistema di produzione e consumo e delle comunicazioni di massa, di tentare di incidere razionalmente su tale processo di trasformazione.


Non si trattava solo di riaffermare, come invece scriveva nel 1962 il critico Umbro Apollonio, “che non è destino invalicabile dell’uomo moderno restare subalterno alla tecnica, perché nell’ambito creativo si dà il ricambio di una diversificazione per cui essa può mutarsi in linguaggio espressivo” (Apollonio,1962); non si trattava, cioè, di trovare nell’arte un riscatto alla dipendenza tecnologica subìta nel quotidiano.


L’ambizione, almeno da parte degli esponenti e dei gruppi più radicali all’interno delle “Nuove tendenze”, era quella di promuovere un atteggiamento di ricerca capace da un lato di trasformare le coordinate tradizionali del circuito di produzione e consumo estetico, e dall’altro di proporre una possibilità di intendere ed utilizzare la tecnologia comunicativa in un senso alternativo a quello vigente nella società capitalistica. In un manifesto apparso sul “Verri” nel dicembre 1963, siglato congiuntamente da Enzo Mari, dal “Gruppo T” di Milano e dal “Gruppo N” di Padova, si legge:

“La ricerca che compiamo sui mezzi e con i mezzi della comunicazione visiva tende ad un allargamento della conoscenza (vuole cioè indagare, individuare e proporre nuovi ordinamenti). Questi nuovi modi di ordinare, in quanto sono modelli complementari specifici di particolari zone della realtà che esploriamo, tenderebbero a proporre un ordinamento di carattere più generale.” (Mari,1963).

Uno dei punti qualificanti di “Nuove tendenze” era appunto quello della ricerca di nuovi modelli comunicativi, ricerca che, negli artisti di cui stiamo parlando, assume un valore quasi etico di intervento progettuale dell’operatore artistico all’interno della realtà quotidiana, con il preciso scopo di trasformare la natura delle relazioni esistenti tra produttore, opera e fruitore. Come nota il critico Ernesto Francalanci,

“Il movimento dell’arte programmata in effetti approfondisce ed accentua (…) non tanto la problematica ‘ingegneristica’ e ‘architettonica’ della creatività, quanto l’aspetto ‘etico’ complessivo dell’arte, del suo farsi, del suo organizzarsi, del suo diffondersi; in questosenso esso rappresenta un momento storico comunque nodale, poiché l’operazione creativa viene definitivamente a perdere ogni componente spiritualista che, nonostante tutto, aveva caratterizzato quasi tutte le avanguardie storiche, e per ciò conquistando una precisa configurazione, antiromantica e antimetafisica: all’intrecciarsi delle due forze vitali della cultura profonda delle avanguardie, lo spiritualismo e il materialismo, questo momento storico sostituirà il coniugarsi di razionalismo scientifico e di ideologia politica, compensando la perdita consequenziale del ‘poetico’, dell’universale interiore, con una diffusione universale dell’arte, con una ostentazione dimostrativa dei meccanismi più segreti della invenzione creativa, con la fissazione dei linguaggi formali su codici linguistici ossessivamente minimali e geometrici.” (in Vergine, 1983,p.2O).

La ricerca promossa e condotta, in gruppo o singolarmente, dagli artisti del movimento dell’arte programmata, vuole dunque porsi come momento di desacralizzazione del fare artistico, che deve essere trasformato, a tutti gli effetti, in una “condizione di ricerca”. Il manifesto citato in precedenza è a questo proposito esplicito:

“Risulta chiaro che la strumentalizzazione è la condizione nella quale la ricerca si trova immersa. Ed è condizione limitante al punto tale che quasi la nascita stessa di una nuova attività di ricerca è condizionata alla sua potenziale strumentalizzazione. Questo è il pericolo che rischia di svalutare già nella fase iniziale il significato del nostro lavoro (…).


A tale scopo è necessario che quello che noi cerchiamo di fare venga valutato, e dal pubblico, e soprattutto da chi sta tra noi e il pubblico, non come quell’attività magica ed in fondo gratuita dell’artista ispirato, nella quale tende a confinarci la mentalità borghese, ma come un lavoro.


Lavoro che intendiamo fondato su una certa metodologia strutturale e sulla volontà di cosciente indagine, per cui riteniamo possibile e utile verificare le nostre intenzioni soprattutto sul piano più propriamente tecnico; nella variazione, nella programmazione, nelle forme in cui le strutturiamo, e in tutti quegli aspetti delle nostre ricerche che investano aspetti e problemi propri a quella più vasta realtà alla quale, nei limiti consentitici dalla nostra capacità, vogliamo partecipare il più direttamente e costruttivamente possibile.” (ibidem,p.158).

Da questo presupposto derivava anche la scelta del lavoro di gruppo, del rifiuto di apporre la “firma” individuale ed autentificante sull’oggetto prodotto, come tentativo di opposizione alle leggi del meccanismo dominante di mercificazione estetica. I “gruppi” organizzavano mostre collettive e fornivano ai propri componenti un’occasione istituzionalizzata di verifica e di stimolo.


Il ripudio, operato dagli esponenti di “Nuove tendenze” nei confronti di ogni atteggiamento espressionista (e quindi, in quel particolare contesto storico, dell’arte informale), si concretizzava nei fatti in scelte di lavoro indirizzate alla realizzazione di opere “programmate”, dalle quali veniva escluso ogni arbitrio dovuto all’estro individuale. Si trattava, per lo più, di partire da elementi visivi elementari (una configurazione geometrica di base, un fascio di luce, un solido), e di predeterminare con rigore le possibili variazioni dell’assetto di partenza, in modo da fornire al fruitore gli stimoli percettivi desiderati:

“La ricerca, concretata attraverso tutte le possibilità della comunicazione visiva (oggetti, film, opere grafiche, ecc.), deve essere proposta attraverso i mezzi specifici (regole gestalt-psicologiche) per stabilire con lo spettatore un contatto che sia il meno possibile affidato ad ambiguità interpretative individuali (cultura, umore, contingenze geografiche, gusti, ecc.” (Mari,1963).

Il rapporto opera – fruitore prefigurato dall’arte “programmata” degli esponenti di “Nuove tendenze” è certamente uno dei tratti più caratteristici di tale movimento. Grazia Varisco, che allora faceva parte del “Gruppo T”, ricordava recentemente come la partecipazione del pubblico

“ci interessava molto, perciò mettevamo biglietti alle nostre mostre: ‘SI PREGA DI TOCCARE’. E il pubblico, né spettatore né fruitore (secondo il condizionamento vigente in gallerie e musei), leggeva nell’invito un NON che non c’era.” (in Vergine ed.,1984,p.178).

L’opera “programmata” è tale soprattutto nel senso che “programma” un’interazione del fruitore con l’oggetto estetico profondamente diversa rispetto a quella che si verifica entro i canoni dell’arte tradizionale. Da un lato, si cerca di non lasciare alcuna traccia di quell’ambiguità che, nelle opere “chiuse” tradizionali, provoca nel fruitore sensazioni “sempre diverse”, accresciute e rinnovate ad ogni approccio con le opere stesse. Per altro verso, l’opera d’arte programmata “non esiste” senza l’intervento del fruitore, in quanto deve essere necessariamente “attivata” da esso per poter “funzionare”. Un esempio limite è la “Scultura da prendere a calci” di Gabriele De Vecchi (1959), presentata dall’autore in questi termini:

“Insieme di parallelepipedi di spugna sintetica, connessi da elastici, ancorato ad una base zavorrata mediante un elastico.


Dopo un calcio i parallelepipedi, mutando i loro rapporti, evidenziano una nuova ipotesi plastica e una mutata dislocazione spaziale dell’insieme, e così di pedata in pedata fino all’estinzione, per usura, della scultura.


Nell’azione plastica si privilegiano: la podalità sulla manualità; la socializzazione del ‘perché non parli?’ di Michelangelo; la durata effimera contro l’eternità della scultura; la partecipazione sulla contemplazione; il caso e l’imprevisto nella variazione interna ad un campo circoscritto. Per la realizzazione della scultura da prendere a calci non è previsto nessun abito o scarpa d’artista.” (ibidem, p.91).

La scultura irridente e dadaista di De Vecchi rappresenta, si è detto, un caso limite. Ma tutte le opere dell’arte programmata implicano un coinvolgimento del fruitore di tipo non tradizionale, tramite l’adozione di uno dei tre procedimenti seguenti:


a) opere che necessitano dell’intervento del fruitore per essere attivate;


b) opere “dinamiche” o “cinetiche”, azionate da un meccanismo che ne varia la configurazione in modo programmato nel corso dello svolgimento temporale;


c) opere che simulano il dinamismo, attraverso configurazioni (di linee, di luce) che, benché statiche e non modificabili, sono percepite dal fruitore in modo dinamico.


Il fenomeno della desacralizzazione, unito a questa maggiore e “programmata” interazione del fruitore con l’opera, veniva inteso, nell’ottica rigorosamente utopizzante degli artisti del movimento, come un tentativo di eliminare ogni tipo di barriera tra autore e consumatore, e di realizzare una sorta di esteticità (razionale e trasformatrice) diffusa nel sociale, e non riservata ad ambiti ed individui selezionati. Gli stessi strumenti utilizzati nella produzione di questi oggetti estetici, come ricordava nel 1983 Gabriele De Vecchi, non erano affatto tecnologicamente all’avanguardia. Si trattava infatti di

“materiali economicamente funzionali alle ipotesi di lavoro, scelti fra i più comuni disponibili sul mercato a costi accessibili a qualunque tasca, posto che i nostri lavori dovevano essere strumenti per realizzazioni estetiche costruibili da tutti. Così il destinatario era progettista ed esecutore a un tempo, perché quegli oggetti privati dell’unicità sono senza tempo e creatore, cioè riproducibili in ogni tempo e da chiunque, senza per questo perdere le qualità e quantità informative di cui sono portatori, come, avremmo detto nel ’59, il succedersi del giorno e della notte o delle stagioni.” (ibidem, p.168).

Ma le preoccupazioni ideologiche degli artisti del movimento dell’arte programmata non trovavano affatto riscontro presso i teorici di quelle esperienze, come Bense, Eco e Moles, che guardavano ad esse da un punto di vista assai meno problematico.


Bense associa le nuove tendenze del post-informale, rigorose e “costruttive”, all’idea di progresso – “la realtà estetica dell’arte è qualcosa di fondamentalmente in grado di espandersi (e in questo coincide con la sfera tecnica)” – e vi intravede il segno di un passaggio fondamentale nello sviluppo dell’intelligenza umana, che starebbe per entrare,

“lasciato alle spalle lo stadio della differenziazione, in una fase dell’integrazione. Accanto alla nuova significativa unificazione di scienza e tecnica, di matematica e di teoria dell’informazione avvenuta nella macchina trans-classica (…) avanza, con iniziale circospezione, l’unificazione tra tecnica ed estetica. Essa naturalmente attribuisce un peso nuovo a ciò che nel contesto della produzione industriale prende il nome di disegno industriale, ma fa anche dell’opera d’arte, come supporto dell’informazione estetica (sottoposto anch’esso allo schema della comunicazione con un emittente e un ricevente), una parte essenziale, costitutiva, e non più una componente casuale, un lusso, del processo di civilizzazione.” (Bense,1965,p.367).

Tale possibilità di unificazione di tecnica ed estetica, che si basa sulla “coscienza della fondamentale fabbricabilità del mondo” (ibidem,p.367), implica come proprio risultato, per l’autore tedesco, la “progressiva manipolazione artistica verso una determinazione estetica di ciò che è esistente.” (p.467).


Umberto Eco, che cura l’introduzione al catalogo della mostra “Arte programmata”, promossa dall’Olivetti nel 1962 a Milano, vede in questa tendenza artistica il concretizzarsi dell'”esigenza di rottura degli schemi percettivi”, dovuta alla necessità, vitale per l’uomo contemporaneo, di adeguarsi con forme di sensibilità rinnovate (maggiore dinamicità, capacità di reazione immediata a stimoli provenienti contemporaneamente da fonti diverse) alle nuove condizioni tecnologiche e sociali:

“L’arte, nel XX secolo, doveva tentare di proporre all’uomo la visione di più forme contemporaneamente e in divenire continuo, perché questa era la condizione a cui veniva sottomessa, a cui sarebbe stata ancora più sottomessa, la sua sensibilità. (…).


Non so come abbia fatto, ma è sempre stata l’arte, per prima, a modificare il nostro modo di pensare, di vedere, di sentire, prima ancora, certe volte cento anni prima, che si riuscisse a capire che bisogno c’era.” (in Vergine,1983, p.2O5-6).

Tra l’impegno “etico” ed “ideologico” degli artisti del movimento in questione, e la visione pacificata ed ottimistica del “progresso” dei teorici corre, almeno quanto a toni, un abisso.


Si è visto come uno degli obiettivi principali dell’arte programmata fosse quello di arrivare ad una “democraticizzazione dell’arte” attraverso la sua desacralizzazione, e contemporaneamente attraverso la predeterminazione di un maggiore coinvolgimento del fruitore rispetto a quello realizzato dall’arte tradizionale. L’aspetto che però più interessava gli studiosi che si accostavano a questo tipo di esperienze artistiche era proprio quello della compresenza, nelle opere “cinetiche” prodotte, di progettazione ed indeterminazione, di programma e caso. Per Eco,

“Non sarà dunque impossibile programmare, con la lineare purezza di un programma matematico, ‘campi di accadimenti’ nei quali possano verificarsi dei processi casuali. Avremo così una singolare dialettica tra caso e programma, tra matematica e azzardo, tra concezione pianificata e libera accettazione di quel che avverrà, comunque avvenga, dato che in fondo avverrà purtuttavia secondo precise linee formative predisposte, che non negano la spontaneità, ma le pongono degli argini e delle direzioni possibili. (ibidem).

La stessa “sponsorizzazione” effettuata dall’Olivetti, che organizzò esposizioni collettive di “arte programmata” a Milano, Dusseldorf, Londra e New York, era significativa dell’interesse, sia pure molto mediato, che l’industria dei settori più avanzati sotto il profilo della ricerca e della progettazione tecnologica dimostrava nei confronti di queste esperienze artistiche. E ciò malgrado il fatto che nella realizzazione delle opere dell’arte programmata, almeno nel periodo che stiamo trattando, non si facesse uso alcuno di strumentazioni elettroniche.


Ma il problema della riproducibilità delle opere d’arte “programmata” era posto, se non dalla concreta pratica artistica degli esponenti di “Nuove tendenze”, almeno dai critici che si accostavano a tali esperienze ravvisandovi le condizioni necessarie per una “democratizzazione produttiva” del mercato estetico. Nel 196O, Carlo Belloli auspicava che venissero superati

“gli angusti confini che fatalmente assegnavano le opere d’arte a percorsi limitati e senza sbocchi: dall’artista alla collezione al museo, mai all’individuo, alla sua vita quotidiana, al divenire della sua casa.


Per mezzo della moltiplicazione l’opera, mantenendo il carattere di pezzo unico, originale in senso estetico, realizza in sede sociale quell’alto e attuale significato di messaggio collettivo che una vasta circolazione le permette di concretamente assumere. La moltiplicazione permette all’artista di uniformarsi ad un prezzo base di costo che corrisponde ad un prezzo standard di vendita, uguale per tutte le opere presentate.” (in Vergine,1983, p.2O2).

E, nel 1964, Tomàs Maldonado poneva con decisione la questione dell’utilizzo di tecnologie elettroniche nell’ambito della produzione di arte astratta e dinamica, progettata in base a criteri rigorosi e formalizzabili, e destinata ad un tipo di fruizione (su larga scala) in cui “l’osservatore non funge più da parassita, ma da cooperatore nella creazione del divenire rappresentativo”:

“Questi oggetti non utilizzano ancora le nuove fonti espressive che ha portato con sé la più recente evoluzione della tecnica, ovvero l’elettronica. Prima o poi però ciò accadrà. Da allora in poi, le macchine artistiche potranno abbandonare l’attuale, ristretto spazio della condizione di rarità in cui ancora adesso vegetano.” (in Vergine, 1983, p.212).

Segno di un’ambiguità di fondo, tra l’impegno soggettivo “ideologico” ed “etico” degli artisti e la strumentalizzazione delle loro ricerche da parte dell'”establishment” produttivo e culturale dell’epoca del miracolo economico? Nel 1964, il critico d’arte Giulio Carlo Argan poneva in relazione, a questo proposito, il fenomeno dell'”arte programmata” con quello della “pop art” americana:

“Le correnti programmatiche assumono come campo la pura tecnologia industriale; la pop art tutto l’insieme d’immagini di cui i gruppi di potere si servono per condizionare il comportamento dei consumatori. Le prime, con il loro forte accento assiologico, tendono a separare la tecnica industriale dalla sovrastruttura capitalistica; la seconda, che ha un orizzonte larghissimo ma nessun accento assiologico, non soltanto rifiuta la distinzione, ma svaluta il metodo tecnologico nei confronti del sistema di condizionamento. Perciò, a costo di farmi accusare di manicheismo, considero positiva la Gestalt e negativa la pop art. (…)


Allo stato delle cose tra Gestalt e pop art, tra progetto e non-progetto (qualcun altro, però, progetta per noi), mi pare configurarsi come antitesi tra utopia e cinismo; o tra una debole sinistra e una pericolosa destra.” (ibidem,p.211).

E’ però interessante vedere come alcuni tra i temi principali dell’arte programmata (la desacralizzazione dell’arte e del ruolo dell’artista, la “costruibilità” dell’oggetto estetico, il suo “dinamismo”, l’insistenza nella ricerca di nuove modalità comunicative dell’opera rispetto al fruitore) siano stati ripresi, dopo qualche anno, dallo studioso francese Abraham A. Moles. Nel saggio “Art et ordinateur”, del 1971, Moles discute delle opportunità di utilizzo in ambito estetico degli elaboratori elettronici, e nota come ciò provochi il mutamento delle relazioni tradizionali tra artista (produttore della “struttura”, del “programma” estetico) e consumatore:

“L’artista crea l’idea; l’Opera sarà ormai realizzata in parte dalle macchine, in parte dal suo stesso consumatore, ed unirà la preziosità dell’originale alla pregnanza del gioco. Non ci saranno più frontiere tra l’uno e l’altro aspetto; l’artista, geniale o no, non appartiene ad una specie diversa da quella degli altri uomini, è un programmatore, così come lo saremo tutti.” (Moles, 1971, p.132).

Ma l’aspetto che più interessa Moles è quello relativo all’indagine delle percezioni sensoriali, e delle opportunità che si aprono per una ridefinizione complessiva del modello della comunicazione estetica:

“L’elaboratore diventerà, così, programmatore di uno spettacolo spazio-temporale, di un meccanismo di suoni, di luci e di colori che sviluppa in modo razionale gli sforzi dell’arte cinetica (…).


In questa scoperta della programmazione delle percezioni sensoriali è necessario ancora colmare delle lacune, coordinare e sistematizzare le ricerche, riuscire a dominare gli insegnamenti che ne traiamo a proposito della sensibilità estetica. E’ un compito enorme, e gli artisti che si sono avventurati in tale direzione fanno soprattutto la figura dei precursori. Di fatto, noi non sappiamo fin dove possiamo arrivare con queste arti del movimento, qual è il grado di attrazione dei differenti tipi di stimolo, quale deve essere la loro intensità, per realizzare quello che è lo scopo eterno dell’artista: rinchiudere lo spettatore in un recinto sensoriale dal quale quest’ultimo non si possa sottrarre che per uno sforzo di volontà, avvolgerlo in una sequenza di avvenimenti sensualizzati.” (ibidem).


 

2.4 L’almanacco Bompiani del 1962.


Quando, nel dicembre del 1961, la casa editrice di Valentino Bompiani pubblica, in linea con una tradizione che data al 1925, il proprio almanacco letterario annuale, la veste grafica e il titolo del volume segnalano con evidenza il fatto che non ci si trova di fronte ad un almanacco di tipo tradizionale. La copertina di Bruno Munari, la cui idea grafica si sviluppa sulla base della fotografia di un piano della memoria a nuclei ferritici di un elaboratore Ibm, pone infatti in evidenza un tema monografico inconsueto: “Le applicazioni dei calcolatori elettronici alle scienze morali e alla letteratura”.


Non (o non solo) un repertorio, quindi, dei fatti più rilevanti avvenuti nel corso dell’anno in campo letterario, come ci si sarebbe potuto attendere da un annuario con funzioni di divulgazione e di archiviazione-riepilogo; al posto di quello una introduzione-intervento su un tema (l’elettronica) da un lato sicuramente poco conosciuto se non in una molto ristretta cerchia di specialisti, e d’altro canto semanticamente lontano dai termini degli accostamenti usuali a cui iconcetti di “letteratura” e di “scienze morali” venivano sottoposti nei dibattiti culturali italiani dell’epoca. La novità di una simile impostazione dell’almanacco veniva subito individuata da un critico avvertito come Carlo Bo, che in una recensione su un settimanale segnalava come “all’idea di divagazione e di illustrazione è stata sostituita l’altra di ricerca e di individuazione” (Bo,1962).


In realtà, lo sviluppo del tema monografico in questione occupava solo la parte centrale dell’almanacco, aperto da un “calendario dei fatti”, curato da Franco Catalano sulla base di un’analisi della stampa italiana nel corso del 1961, e chiuso dalle “rassegne della letteratura, delle arti, dello spettacolo” e da una lunga serie di indicazioni pubblicitarie. Ma l’attenzione dei recensori non mancò di individuare proprio nella parte monografica l’aspetto più interessante del volume.


Il tema “elettronica e letteratura” venne sviluppato dai redattori dell’almanacco secondo un criterio di organizzazione che rispondesse innanzitutto ad un’esigenza di informazione piana e comprensibile, necessaria ad un pubblico non specialistico, sul mondo degli elaboratori elettronici. Una breve nota in corsivo all’inizio della trattazione ricordava come

“Questa sezione dell’Almanacco ha potuto essere completata con esempi inediti sulle possibili applicazioni delle tecniche elettroniche nel campo della linguistica e della letteratura grazie alla cordiale collaborazione della Società Olivetti e della IBM Italia.


La competenza e l’entusiasmo dei tecnici che la IBM Italia ha messo cortesemente a nostra disposizione ci sono stati di prezioso aiuto, anche al di là del lavoro immediato da compiere.


La società Olivetti, nella linea del tradizionale interesse recato allo sviluppo dei rapporti fra il mondo della tecnica e della produzione e quello della cultura, ha dato alla nostra iniziativa il proprio convinto appoggio, fornendo strumenti di attuazione e consulenza qualificata. (…)


L’Almanacco tiene quindi a porgere un vivo ringraziamento ai tecnici e ai dirigenti della Società Olivetti e della IBM Italia (e alla Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde presso cui si trova il calcolatore IBM utilizzato per l’esperimento di pag.145).” (Almanacco,1961,p.88).

All’introduzione faceva seguito un articolo di Rinaldo De Benedetti su “Il calcolo proposizionale ovvero l’algebra delle idee”, che tracciava una breve storia degli sviluppi della logica simbolica da Euclide a Bertrand Russell, passando per Leibniz e George Boole (l’ideatore dell’algebra binaria).


L’articolo tendeva ad evidenziare, nei confronti di un lettore presumibilmente di formazione umanistica, l’utilità e l’interesse del calcolo proposizionale attuato mediante la logica simbolica, che “trova oggi la sua applicazione più importante e corposa alla costruzione delle macchine calcolatrici, dei cervelli elettronici”, anche per utilizzi di tipo non strettamente scientifico: “problemi logici complicati, veri e propri rompicapo, che non sempre ma sovente si presentano alla pratica si riducono a proporzioni maneggevoli” (ibidem, p.91).


La successiva esposizione dei fondamenti dell’algebra binaria prende le mosse da un’analisi della maieutica socratica, tratta dal dialogo platonico “Il sofista”, in cui il metodo dialogico utilizzato da Socrate nei confronti dell’interlocutore viene ricondotto ad una strutturazione di domande che presuppongano risposte appunto in termini binari: “sì – no”.


La struttura ed il tono di questa prima parte della monografia tendono a presentare un’immagine del mondo della ricerca e della tecnologia elettronica che sia accettabile e perfino accattivante per un lettore genericamente colto; tendono, insomma, ad esorcizzare la distanza fra mondo umanistico e mondo scientifico, tipica dell’ambiente e della storia della cultura italiana del novecento.


In quest’ottica, dopo una sintetica esposizione del modo di “ragionare” del “cervello elettronico”, l’almanacco inizia ad illustrare le applicazioni degli elaboratori in atto nel settore della ricerca linguistica. Nell’articolo di Michele Pacifico, intitolato “I nuovi Gutemberg”, l’autore passa in rassegna le più significative, e sottolinea che

“il lavoro del linguista è, in generale – soprattutto in alcune branchie della filologia e della lessicologia – definito rigorosamente in regole operative, che per essere formulabili in termini logici ed essendo di numero finito possono venire comunicate all’elaboratore elettronico in modo esauriente e senza che la macchina richieda un intervento umano nell’applicazione delle regole stesse.” (ibidem,p.1O1).

In articoli successivi il gesuita padre Roberto Busa illustra le applicazioni del metodo statistico ai fenomeni linguistici ed all’analisi lessicale, e si sofferma in particolare sugli studi effettuati all’estero per la realizzazione di repertori lessicografici; il direttore della Centrale calcoli elettronici della Fiat Stanislao Valsesia espone le modalità di reperimento automatico dei dati indispensabili per la costituzione di una futura “biblioteca elettronica”; il professor Carlo Tagliavini parla dell’automazione nelle ricerche fonetiche, ed in particolare del lavoro da lui stesso compiuto in quest’ambito, presso l’Istituto di Glottologia dell’Università di Padova; il professor Silvio Ceccato scrive a proposito de “la storia di un modello meccanico dell’uomo che traduce”, citando la realizzazione da parte dell’IBM di una macchina traduttrice per il governo americano, allo scopo di soddifarne l’interesse nei confronti della stampa quotidiana sovietica. In ultimo, il professor Aurelio Roncaglia e Michele Pacifico espongono i procedimenti utilizzati ed i risultati ottenuti dall’Olivetti in collaborazione con l’Istituto di Filologia Romanza dell’Università di Roma nell’omogeneizzazione di due repertori metrici delle poesie medioevali provenzale e francese.


Quest’ampia rassegna di indicazioni e di resoconti tendeva a mettere in luce la contiguità delle ricerche nello studio e per la produzione degli elaboratori elettronici con quelle di taglio “scientifico” che dominavano alcuni settori della filologia e della linguistica. Se una simile contiguità esisteva, i redattori dell’almanacco si limitavano però, per prudenza, ad evidenziare il carattere strumentale del contributo che i “cervelli elettronici” potevano apportare, nell’ambito di campi ben delimitati, agli studi letterari ed umanistici.


Sull’ampiezza degli effetti di un reciproco compenetrarsi delle “due culture”, l’almanacco ospitava un’inchiesta – dibattito fra personalità di rilievo del mondo umanistico e letterario (11), articolandone gli interventi sulla base di quattro domande:

“1. Come ella saprà, presso alcuni istituti universitari europei sono in corso da diversi anni ricerche filologiche e linguistiche nelle quali si ricorre all’impiego dei moderni strumenti di elaborazione elettronica delle informazioni, i cosiddetti ‘cervelli elettronici’. (…) Ritiene che l’intervento della macchina nel campo della filologia sia un fatto ‘positivo’ o no?


2. A giudizio di alcuni, l’utilizzazione delle macchine elettroniche nelle ricerche lessicologiche e letterarie può portare, anzi porterebbe inevitabilmente, a un mutamento profondo nei metodi e anche nei principi ispiratori di tali ricerche. Altri invece ritiene che dal ricorso ai ‘cervelli elettronici’ non ci si debba aspettare altro che uno sveltimento e un alleggerimento delle procedure classiche (…). Quale di questi due punti di vista ritiene di poter condividere?


3. In particolare quale contributo, secondo Lei, le nuove tecniche per l’elaborazione dei dati in campo lessicologco possono dare alla critica stilistica?


4. La collaborazione in atto (…) tra il mondo della tecnica e quello delle scienze umanistiche può, a Suo parere, svilupparsi fino a superare l’attuale frattura tra scienza e umanistica (fra le ‘due culture’ per dirlo con Snow) oppure non è altro che uno dei sintomi, sempre più frequenti, dell’assorbimento delle scienze morali nelle tecniche della civiltà meccanizzata contemporanea? (ibidem,p.143).

Le risposte degli interessati erano concordi nel valutare positivamente l’intervento delle tecniche di elaborazione elettronica dei dati negli studi di carattere filologico, e parimenti nel considerare del tutto strumentale, oltre che circoscritto, il contributo che le tecniche in questione potevano apportare alla critica stilistica. Anche in merito alla seconda domanda, le risposte si allineavano per lo più nell’escludere un possibile mutamento dei metodi e dei principi ispiratori delle ricerche letterarie provocato dalle nuove tecnologie elettroniche, ma con alcune eccezioni significative.


Roncaglia e Tagliavini, che avevano preso parte alle esperienze da loro stessi descritte in precedenza di utilizzo di quelle tecnologie, prevedevano che la velocizzazione, la precisione, e l’incremento quantitativo delle informazioni disponibili avrebbero avuto influenza anche sul piano qualitativo della scelta dei metodi di analisi, quantomeno a livello tendenziale. Un punto di vista analogo esprimeva anche Franco Fortini, facendo notare come l’incremento dei dati e lo sveltimento delle procedure ha necessariamente una ripercussione sui metodi e sui principi,

“Nella misura in cui, almeno, facilitando la verificabilità e le probabilità delle ipotesi di lavoro, condurranno quei metodi e quei principi a partecipare (…) alla evoluzione propria alle scienze fisiche e naturali. La storia di queste scienze ci mostra infatti che la quantità dei dati e dei risultati tende a modificare i metodi di ricerca. Questi sono inseparabili da certe premesse e principi. E così finiscono col modificare, qualitativamente, anche questi ultimi.” (ibidem,p.314).

Necessariamente più controverse, le risposte alla domanda sul superamento della frattura esistente tra le “due culture”. D’Arco Silvio Avalle fa notare che “la frattura fra scienza ed umanistica esiste solo negli scienziati e negli umanisti mediocri (o distratti)”, mentre Contini ne auspica il completo superamento: “se gli strumenti di cui si discorre fossero atti a ridurre un divorzio peraltro già molto attenuato (…) non ci sarebbe che da rallegrarsi”; Bruno Migliorini afferma che “rimarrà vero anche in avvenire il mens agitat molem degli antichi, e che solo le scienze morali potranno porre i problemi e poi interpretare i dati”; Cesare Segre chiede provocatoriamente “perché si dovrebbe auspicare questo superamento?”; Pier Paolo Pasolini ritiene che “i sintomi di tecnicizzazione sono delle ‘spie’ non dell’andamento della lotta tra scienza e spirito umanistico, o della loro frattura: ma di un mutamento della società umana che coinvolge insieme le nuove tecniche e l’antica cultura, e i loro rapporti”.


Dopo l’inchiesta sulle “due culture”, o meglio intercalato ad essa, l’almanacco riportava il resoconto dell’esperimento compiuto da Nanni Balestrini servendosi di un elaboratore Ibm, a proposito del quale ci si soffermerà comunque più avanti nel corso della trattazione.


L’articolo successivo, firmato da Franco Lucentini, portava il titolo cacofonico di “Automatopoietica”. Con esso, l’almanacco modifica la direzione di un discorso fino a quel momento incentrato sulle applicazioni degli elaboratori in linguistica e nella letteratura, per tracciare una sorta di storia letteraria del mito dell'”uomo artificiale”. L’esperimento di Balestrini (la “macchina” che compone poesie) viene così a rivestire una funzione di cesura, all’interno del volume di Bompiani, fra la prima serie di articoli di divulgazione scientifica ed una seconda, tesa all’esplorazione delle modifiche provocate nel corso dei secoli sull’immaginario culturale dalla crescente importanza delle macchine nella vita dell’uomo, in una retrospettiva indubbiamente carica di suggestioni per un lettore di formazione umanistica.


Non è naturalmente dovuto al caso il fatto che questo tipo di approccio, non più direttamente “scientifico”, bensì filosofico e letterario, si concreti in primo luogo con la storia degli automi tratteggiata da Lucentini. Docile servo meccanico, ma spesso, con subitaneo voltafaccia, mostro che si rivolta contro il proprio creatore, l’automa letterario è probabilmente il simbolo più efficace dell’ambiguità con la quale l’uomo si è rappresentato, nel corso delle varie epoche, il proprio rapporto (positivo / negativo) con le macchine da lui stesso create. L’esposizione, contenuta ma ricca di episodi, tenta appunto di dare conto della genesi di tale ambiguità, e dei motivi filosofici e culturali che la costituiscono, per mezzo di un’analisi sviluppata sul piano diacronico.


Una prima investigazione, dedicata al riscontro della presenza di automi nella letteratura dell’antichità greca e latina, spinge Lucentini ad affermare che “negli scrittori dell’età classica, dunque, automi ed androidi non s’incontrano che in contesti perfettamente rispettabili e tranquilli.” (ibidem,p.154). Gli automi non ispirano terrore né avversione: è vero, per Aristotele, che l’anima ispira e guida i movimenti del corpo, per non lasciare che quest’ultimo diventi succube della necessità del caso; non pesa però ancora alcuna condanna sulla materia in quanto veicolo di forze negative e demoniache. Secondo Lucentini è decisivo, perché ciò avvenga, l’incontro della tradizione greco – latina con quella giudaico – cristiana. Gli anatemi dei profeti biblici contro idoli e simulacri si trasformano, nel primo proselitismo cristiano, in una progressiva demonizzazione della materia, parallela a quella in atto nei confronti del mondo animale:

“L’animalistica diabolica e tentazionista, del resto, è anch’essa un risultato diretto di quell’allontanamento degli uomini dalla natura, (…) che, cominciato come gioco dell’intelligenza nell’idealismo greco, diventa frattura emozionale al momento dell’incontro tra quest’ultimo – tinto di giudaismo – e spiritualismo cristiano: quando la materia non è più mera passività che ha bisogno dello spirito per animarsi, ma negazione attiva e violenta dello spirito” (ibidem,p.155).

Dopo aver attraversato rapidamente il medioevo, Lucentini cita di passaggio lo straordinario fiorire di inoffensivi automi ed androidi nelle corti europee del cinquecento e del seicento, registrando però, lungo il percorso Cartesio – Pascal – Gassendi – Hobbes, il contemporaneo declino del concetto di anima nella filosofia moderna. E proprio nel corso del seicento “assistiamo al primo accesso di pazzia furiosa da parte di un automa di fattura rabbinica, il Golem”.


L’autore conclude la sua esposizione ricordando come il razionalista D’Alembert includesse, nel primo volume della “Encyclopedie”, la descrizione del meccanismo di un congegno del fabbricante di automi Vaucanson, ma anche come, nel contempo, si iniziasse a delineare la terrificante figura dell’automa “romantico”, che doveva portare al “Frankenstein” di Mary Shelley. E’ interessante notare come Lucentini non espliciti alcuna relazione fra il proliferare degli automi letterari, con la loro sempre più terribile valenza, ed il nascente industrialismo europeo, ed arresti la propria analisi sulla soglia dell’ottocento tralasciandone gli sviluppi nell’età contemporanea. Ma questo vuoto verrà in parte colmato dall’argomentazione dell’articolo successivo.


La monografia “elettronica” dell’Almanacco Bompiani 1962 si chiude con un pezzo che reca la firma di Umberto Eco sotto il titolo “La forma del disordine”, e che debutta con un singolare rovesciamento dei primi versetti del Genesi:

“In principio era l’Ordine. E la terra era informe e vuota. Poi lo Spirito di Dio soffiò sopra le acque e fu il Caos. E con esso la vita, l’immensità dei possibili, la giovinezza della novità perpetua e della creazione perenne.” (ibidem,p.175).

Eco, all’epoca dell’uscita dell’Almanacco, faceva parte già da alcuni anni della redazione della casa editrice Bompiani, e non vi è dubbio che abbia avuto larga parte nell’ispirazione e nella realizzazione della monografia in questione. Collaboratore del “Verri”, e quindi strettamente legato agli ambienti della neoavanguardia (sarà di lì a poco fra i fondatori del Gruppo ’63) cresciuti intorno alla rivista di Luciano Anceschi, l'”enfant prodige” di Alessandria ne era uno degli esponenti più rappresentativi dal punto di vista della vis polemica e della consapevolezza teorica. L’intervento culturale di Eco in quegli anni si pone sotto il segno dell’interdisciplinarietà: svaria dalla filosofia estetica alla critica letteraria ed artistica, dalla proposizione militante delle poetiche dell’avanguardia al confronto serrato con gli interlocutori del momento (l'”Unità”, “Il Menabò” di Vittorini…) sulla validità teorica delle proprie impostazioni, e va a sfociare nel 1962 nella pubblicazione (presso Bompiani) di quella “Opera aperta” che non mancherà di suscitare uno degli scandali culturali più rilevanti dell’inizio degli anni sessanta.


Il punto di partenza dell’articolo pubblicato sull’almanacco è il seguente: il mondo si va facendo sempre più complesso, e la possibilità stessa di una sua rappresentazione non può più darsi secondo i canoni tradizionali della percezione artistica.

“L’osservatore della prospettiva rinascimentale era un buon ciclope che appoggiava il suo unico occhio alla fessura di una scatola magica, nella quale vedeva il mondo dall’unico punto di vista possibile. L’uomo di Munari è costretto ad avere mille occhi, sul naso, sulla nuca, sulle spalle, sulle dita, sul sedere.” (ibidem,p.187).

Ora, uno dei compiti fondamentali dell’arte è per Eco quello di “provvedere all’uomo d’oggi traduzioni immaginative della realtà naturale che la scienza gli definisce” (ibidem, p.176). Per l’arte si tratta, tra l’altro, di confrontarsi con uno dei problemi più significativi emersi dagli sviluppi della scienza contemporanea: la caduta di ogni ipotesi deterministica per la spiegazione del movimento delle particelle subatomiche, la presenza inquietante del caso in un mondo che ci si era abituati a considerare come retto da leggi definite e necessarie.


“La scienza scopre il caso? L’arte si butta a corpo morto sul caso, e lo fa suo”. Eco individua due possibili approcci dell’operatore artistico al mondo dell’equiprobabilità statistica, e definisce il primo come

“romanticismo del Caso. Si sprizzano follemente tubetti di colore sulla tela stesa in terra, si picchia con un martello su un pianoforte: il Caso disegna le sue figure e il pittore le coglie e le riconosce per sue, il Caso orchestra i suoi rumori e il musicista li accoglie nella sua gamma priva di pregiudizi”.

E’ la poetica della pittura informale e della musica aleatoria; ma

“si potrà tuttavia afferrare il Caso anche dal lato opposto: prevederlo, programmarlo, non sceglierlo una volta accaduto, ma farlo accadere secondo le regole imprescindibili della equiprobabilità statistica, in cui il massimo di casualità coincide con il massimo di prevedibilità.” (ibidem).

L’articolo di Eco è corredato sull’almanacco da alcune riproduzioni di opere degli artisti che all’epoca gravitavano, da soli o associati tra loro, nell’ambito della poetica dell’arte programmata e cinetica. Fra gli altri, Giovanni Anceschi, Gianni Colombo, Enzo Mari, Davide Boriani, Grazia Varisco, Bruno Munari. Eco nota come la loro produzione artistica prenda in genere le mosse da una “conformazione geometrica di base”, che viene sottoposta a permutazioni programmate in precedenza per conseguire, nel corso della sequenza temporale, una serie ampia per quanto limitata di variazioni dell’assetto iniziale. “L’arte imita la natura. Salvo che in questo caso l’arte non imita quella natura che per abitudine percettiva vediamo tutti i giorni, ma quella che concettualmente definiamo in laboratorio”. L’opera così prodotta comporta necessariamente un rivolgimento radicale del modo di accostarsi ad essa da parte del fruitore che voglia immergersi nel suo mondo fluttuante di stati parziali e (ciclicamente) instabili:

“sarete trascinati nella danza del provvisorio e del relativo, accumulerete una informazione che non si identifica con un solo significato ma con la totalità dei significati possibili, non riceverete un messaggio, ma la possibilità di tanti messaggi compresenti. E non troverete più le coordinate tranquillizzanti che vi indichino il sopra e il sotto, la destra e la sinistra.


(Il fruitore) si agita inquieto in una tempesta di stimoli che lo assalgono da tutte le parti. Attraverso la saggezza programmatica delle scienze esatte si scopre abitatore inquieto di un expanding universe.


Non dico che sia una bella storia. E’ la Storia.” (ibidem).


 

Note al capitolo 2.


1)Una diagnosi di questo tipo non veniva d’altronde formulata solamente negli ambienti più strettamente legati alla avanguardia. In un appunto di Elio Vittorini pubblicato postumo, scritto all’inizio degli anni sessanta, si legge che “gli oggetti (personaggi e sentimenti compresi) che noi raffiguriamo continuano ad essere da noi pensati secondo la fisica di Newton anzichè di Einstein”(1967,p.1O).


2)Sul dibattito suscitato nel mondo culturale anglosassone dal saggio di Snow, ed in particolare sulle repliche di F.R.Leavis, L.Trilling ed A.Huxley, si veda Preti, 1968, pp.1-6O.


3)A Calvino rispondeva immediatamente sul “Verri” Renato Barilli, accusandolo di “velleitarismo moralistico”; nell’attuale situazione storica, secondo Barilli,

“l’uomo appare impegnato a inserire nel proprio sistema, nella propria visione l’opacità, la materialità del mondo, guardandola bene in faccia, non mascherandola, non neutralizzandola con speciosi esorcismi razionalistici: estendere su di essa il regno del razionale, ma nello stesso tempo conservarne la vivacità, l’alterità, questi forse gli estremi di un programma di piena attualità: un programma che è indubbiamente quello della fenomenologia, o del pragmatismo nordamericano, tanto per richiamarci a due noti orizzonti speculativi. Un programma dal quale, purtroppo, la maggior parte degli intellettuali italiani restano estranei. (Barilli, 196O, p.16O).

4)Si veda, ad esempio, la voce “Aesthetica” redatta da Croce per la IV edizione dell’Enciclopedia Britannica:

“Un’immagine non espressa, che non sia parola, canto, disegno, pittura, scultura, architettura, parola per lo meno mormorata tra sé e sé, canto per lo meno risonante nel proprio petto, disegno e colore che si veda in fantasia e colorisca di sé tutta l’anima e l’organismo, è cosa inesistente (Croce, 1928, pp.28-29).

5)”Il punto della distinzione tra espressione e comunicazione è certamente assai delicato a cogliere nel fatto, perché nel fatto i due processi si avvicendano di solito rapidamente e par che si mescolino; ma è chiaro in idea, e bisogna tenerlo ben fermo. Dall’averlo trascurato o lasciato vacillare nella poco attenta considerazione provengono le confusioni tra arte e tecnica, la quale ultima non è già cosa intrinseca all’arte ma si lega appunto al concetto della comunicazione. (…) I trattati di tecnica non sono trattati di Estetica, né parti o sezioni di questi trattati. (…) La confusione dell’arte con la tecnica, la sostituzione di questa a quella, è un partito assai vagheggiato dagli artisti impotenti, che sperano dalle cose pratiche, e dalle pratiche escogitazioni e invenzioni, quell’aiuto e quella forza, che non trovano in sé medesimi.” (Croce, 1928, pp.3O-33).


6)L’argomentazione di Pareyson è tesa a dimostrare la legittimità, non solo metaforica, di una valutazione estetica di queste arti, e suona per alcuni versi come anticipatrice delle tesi con cui, alla fine degli anni cinquanta, studiosi come Gillo Dorfles e Umberto Eco sostenevano la necessità di allargare la sfera estetica alla considerazione delle “arti minori”:

“si può parlare di bellezza di opere che non appartengono all’arte propriamente detta, come quando, ad esempio, si dice che un oggetto è bello perchè è ben fatto, e cioè fatto in conformità al suo concetto o all’utilità che se ne attende” (Pareyson,1953,p.1O3).

7)Attraverso l’utilizzo e l’applicazione critica di teorie elaborate in vari settori delle scienze umane e, ma più limitatamente, di quelle naturali, l’estetica contemporanea tende per Rossi alla

“ricostituzione di un proprio statuto filosofico-scientifico, che sottende un radicale rifiuto di ogni metafisica e si connette piuttosto allo sviluppo delle discipline , e non tanto, si badi, nella ripresa indifferenziata dei loro risultati, quanto nella ripresa del loro generale metodo logico, come metodo dell’indagine scientifica moderna.” (Rossi, 1976, p.CLVI).

8)Si trattava, del resto, di un tema già focalizzato nel contesto della teoria della formatività di Pareyson, del quale Eco era allievo:

“L’interpretazione ha il carattere di non poter mai essere unica e definitiva, perché ciò che si interpreta è una forma e chi interpreta è una persona, e sia la persona che la forma sono infinità definite, sì che (…) di ogni opera vi sono infinite interpretazioni, e ciascuna la coglie intera in uno dei suoi infiniti aspetti e da uno degli infiniti punti di vista da cui si può guardarla, e nessuna può pretendere di esaurirla.” (Pareyson, 1953).

9)La Biennale di San Marino del 1963, incentrata su una rassegna degli artisti di “Nuove tendenze”, era appunto significativamente intitolata “Oltre l’informale”.


1O)Nacquero così a Milano il “Gruppo T” (composto da Giovanni Anceschi, Davide Boriani, Gianni Colombo, Gabriele De Vecchi, Grazia Varisco), a Padova il “Gruppo N” (Alberto Biasi, Ennio Chiggio, Toni Costa, Edoardo Landi, Manfredo Massironi), a Parigi il GRAV (Groupe de recherche de l’art visuel), a Madrid l'”Equipo 57″, ed altri ancora.


11)Gli intervistati furono: D’Arco Silvio Avalle, Cesare Cases, Gianfranco Contini, Giacomo Devoto, Gianfranco Folena, Franco Fortini, Luigi Heilmann, Bruno Migliorini, Giovanni Nencioni, Pier Paolo Pasolini, Aurelio Roncaglia, Cesare Segre, Carlo Tagliavini, J.Rodolfo Wilcock.


 



3. Gli esperimenti.


 


3.1 La poetica di Balestrini.


Nanni Balestrini entra giovanissimo, nel 1956, a far parte del nucleo redazionale del “Verri” di Luciano Anceschi. Il rapporto che lega il giovane poeta milanese al direttore della rivista è all’inizio quello che intercorre tra un discepolo e un maestro, come ricorderà nel 1963 lo stesso Anceschi:

“Conosco Balestrini da molti anni; egli è stato brevemente mio scolaro al ‘Vittorio Veneto’, e aveva proprio un’inezia di anni (è nato nel 1935) quando mi portò uno strano e composito libro policromo, in cui, insieme ad un amico, egli aveva pubblicato, sotto la protezione di spaziosi versi di Apollinaire, alcune sue poesie. Ebbene, forse non si trattava delle solite poesie che un ragazzo della sua età scrive; fui sorpreso che non vi fosse neppure una traccia di quella poesia di compenso third rate di origine ermetica che allora correva per le strade; e che non vi fosse nessuna delle consuete rigidità convenzionali. C’era un modo, invece, abbastanza colto di ordinare una materia poetica non matura, una fermezza, un gesto abbastanza sicuro nell’aprire e nel chiudere secondo necessità, e un modo non comune di servirsi di certi modelli, ma davvero poco frequentati.


Una poesia da adolescente con qualche cosa di precocemente esperto, non senza una sua protervia. Ma ben presto Balestrini iniziò un lavoro destinato a dare consistenza al suo fare. Lesse i poeti anglosassoni, da Pound e da Eliot in poi; e tradusse certi poeti tedeschi da Arp fino ai maggiori di questi anni, tra cui la Bachmann, e li presentò primamente sul ‘Verri’ nel nostro paese. Eran letture e traduzioni da poeta in vista di una poesia da fare, e, in questo senso, quanto ai nostri, certo Balestrini non mancò di avvertire la forza dell’Allegria e di Montale, e il senso di Linea Lombarda… Insomma, nata in uno degli incroci più sensibili della contemporaneità, la poesia di Balestrini si è impadronita di molti segreti, di molte risorse, di molti strumenti; e, alla fine, ha deciso, nel modo più rigoroso e resoluto, per la poetica degli oggetti, impegnandosi nel portarla più innanzi.” (Anceschi,1963,p.54).


 

Si è già parlato (cfr.1.3), su queste pagine, del ruolo fondamentale svolto da Anceschi nella formazione dei giovani intellettuali che collaboravano al “Verri” e diedero poi vita al “Gruppo 63”. Bisogna notare, a questo proposito, che l’insegnamento di Anceschi non agì esclusivamente su un livello di formazione metodologico-critica (la fenomenologia, la polemica condotta nei confronti delle impostazioni estetiche di derivazione idealista e storicista), bensì anche su quello immediatamente relativo al piano delle “poetiche”. Fra la pubblicazione, avvenuta nel 1952, dell’antologia “Linea lombarda”, e quella, di dieci anni posteriore, del saggio “Le poetiche del Novecento in Italia”, Luciano Anceschi delineò una interpretazione critica del percorso poetico del novecento italiano che intendeva presentarsi, in effetti, come una precisa scelta di campo.


Per Anceschi, schematicamente, i motivi costitutivi delle poetiche letterarie di questo secolo sono tre: l’idea di stile e di forma (Carducci, Serra, De Robertis, i rondisti); la poetica dell’analogia (D’Annunzio, i futuristi, Ungaretti); la poetica degli oggetti (gli scapigliati, Pascoli, Gozzano, i “liguri”, i vociani, Montale). Nel dopoguerra, con l’esaurirsi della vitalità (se non dell’egemonia) dell’esperienza ermetica, il percorso della “poesia vivente” è caratterizzato per Anceschi dal recupero, da parte dei “giovani” poeti contemporanei, della “poetica degli oggetti”, avvenuto per il tramite della lezione montaliana e degli insegnamenti di Ezra Pound e Thomas S. Eliot.


La poetica degli oggetti, per il direttore del “Verri”, si può definire come “un metodo del fare poetico per cui ciò che il poeta intende comunicare (…) vien reso attraverso maniere di equivalenze ricercate in oggetti convenienti.” (Anceschi, 1968, p.78). Le prime avvisaglie di un evolversi della situazione poetica italiana verso una maggiore aderenza alle “cose”, alla realtà oggettuale, di un allontanarsi dall’atteggiamento lirico tipico dell’ermetismo ungarettiano, vengono evidenziate da Anceschi nella prefazione a “Linea Lombarda”:

“nessuna rinunzia agli oggetti, nessuna hantise de abolir; una poesia in re, non una poesia ante rem.” (Anceschi, 1952, p. 7).

Negli anni successivi Anceschi si preoccupa di definire in modo più circostanziato (e, tramite “Il Verri”, di promuoverne lo sviluppo) le caratteristiche della “nuova poesia”, articolandole in relazione ed in opposizione a quelle predominanti nell’ermetismo, nella polarità da lui istituita tra la “lirica come arte anacoreta”, ripiegata su se stessa, non comunicativa, e la “poesia come accrescimento di vitalità”:

“Di fatto, se nella prima si ha un’esasperazione (in qualche modo demiurgica e sacra) dell’io con una riduzione dei contenuti oggettivi, nella seconda si ha invece una riduzione (che è anche riduzione del demiurgico, del sacro) dell’io, e quasi uno scatenarsi dei contenuti oggettivi.” (Anceschi, 1968, p.246).

Compiendo un passo ulteriore, Anceschi riconduce la polarità riscontrata tra i due atteggiamenti poetici a quella, di fortunata tradizione storiografica, tra classicismo e barocco (anche se qui si tratta di un barocco “desacralizzato”), tra “forme chiuse” e “forme aperte”, indirizzate, queste ultime, appunto ad un “accrescimento di vitalità”:

“In questa poesia trova l’equivalente formale l’impulso proprio di questa seconda metà del secolo verso i modi di una cultura estroversa, prevalentemente intesa alla ragione scientifica, alla tecnica, alla politica, alla sociologia, dissacrata, in modo esplicito non intimista, non essenzialista, e, per altro, non aliena da talune insoddisfazioni di sé.” (ibidem, p.253).

Comunque, è proprio a partire da questa impostazione generale del discorso poetico e critico che traggono le mosse le iniziative più rilevanti degli esponenti della neoavanguardia. Nell’introduzione all’antologia de “I Novissimi”, Alfredo Giuliani segnala appunto quello che è, a suo avviso, il principale motivo comune agli autori ivi antologizzati, e cioè l’obiettivo di un “accrescimento di vitalità”, da conseguire attraverso il ripudio dei moduli lirici tradizionali in favore di una “riduzione dell’io”:

“Tra i ‘nuovi’ e i ‘novissimi’ non c’è continuità, anzi rottura. La coerenza sta nell’essere passati in tempo dall’esercizio ormai inaridito di uno ‘stile’ alle avventurose ricerche e proposte di una ‘scrittura’ più impersonale e più estensiva. Il famoso ‘sperimentalismo’.”


(Giuliani ed.,1961,p.18).

Ma torniamo a Balestrini. Redattore del “Verri” fin dalla nascita della rivista (dapprima sotto lo pseudonimo di L.Giordano), vi pubblica traduzioni di poeti tedeschi contemporanei e versi propri, prima di approdare all’antologia dei “Novissimi”. Nell’antologia curata da Giuliani, Balestrini è presente con alcune poesie ed una dichiarazione di poetica, tanto importante quanto isolata nell’arco della sua produzione anteriore al 1968:

“Accade talvolta di notare con stupore, nello sclerotico e automatico abuso di frasi fatte e di espressioni convenzionali che stanno alla base del comune linguaggio parlato, un improvviso scattare di impreveduti accostamenti, di ritmi inconsueti, di involontarie metafore; oppure sono certi grovigli, ripetizioni, frasi mozze e contorte, aggettivi o immagini spropositate, inesatte, a colpirci e a sorprenderci, quando le udiamo galleggiare nel linguaggio anemizzato e amorfo delle quotidiane conversazioni: straordinarie apparizioni che arrivano a illuminare da un’angolazione insolita fatti e pensieri.” (Giuliani ed., 1961, p.196).

L’atteggiamento poetico di Balestrini trae dunque le mosse dalla constatazione della crisi del linguaggio “parlato” quotidiano. L’esperienza che consente di rivelare la “sclerosi”, l'”automaticità”, l'”anemia” di questo linguaggio, è un’esperienza che riveste i caratteri dell'”illuminazione”, e che nasce appunto dal “contatto” generato, nell’ambito del linguaggio stesso, da accostamenti inaspettati, non voluti, fortuiti. Quello che si rivela, tramite questa esperienza, è l’incapacità del linguaggio quotidiano di rendere per intero la vivacità e la polidimensionalità della vita reale che esso intenderebbe rappresentare, l’opacità che esso frappone tra soggetto e realtà.


Compito della poesia è quello di opporsi e di tentare di superare questa crisi del linguaggio, intervenendo sui meccanismi costitutivi dell’espressione linguistica per produrre “artificialmente” dei momenti di rottura, di “illuminazione”:

“Di qui si fa strada l’idea di una poesia che nasca e viva diversamente. Una poesia apparentemente meno rifinita, meno levigata, non smalto né cammeo. Una poesia più vicina all’articolarsi dell’emozione e del pensiero in linguaggio, espressione confusa e ribollente ancora, che porta su di sé i segni del distacco dallo stato mentale, della fusione non completamente avvenuta con lo stato verbale. Le strutture, ancora barcollanti, prolificano imprevedibilmente in direzioni inaspettate, lontano all’impulso iniziale, in una autentica avventura. E da ultimo non saranno più il pensiero e l’emozione, che sono stati il germe dell’operazione poetica, a venire trasmessi per mezzo del linguaggio, ma sarà il linguaggio stesso a generare un significato nuovo e irripetibile.


E il risultato di questa avventura sarà una luce nuova sulle cose, uno spiraglio tra le cupe ragnatele dei conformismi e dei dogmi che senza tregua si avvolgono a ciò che siamo e in mezzo a cui viviamo. Sarà una possibilità di opporsi efficacemente alla continua sedimentazione, che ha come complice l’inerzia del linguaggio.” (ibidem).

L’operazione poetica si configura allora fondamentalmente come un’operazione razionale di manipolazione del linguaggio “sclerotizzato” quotidiano, ovvero come un’operazione esclusivamente “formale”:

Tutto ciò induce a considerare oggetto della poesia il linguaggio, inteso come fatto verbale, impiegato cioè in modo non-strumentale, ma assunto nella sua totalità, sfuggendo all’accidentalità che lo fa di volta in volta riproduttore di immagini ottiche, narratore di eventi, somministratore di concetti… Questi aspetti vengono ora situati sullo stesso piano di tutte le altre proprietà del linguaggio, come quelle sonore, metaforiche, metriche…, tendono al limite a essere considerati puro pretesto.


Un atteggiamento fondamentale del fare poesia diviene dunque lo “stuzzicare” le parole, il tendere loro un agguato mentre si allacciano in periodi, l’imporre violenza alle strutture del linguaggio, lo spingere a limiti di rottura tutte le sue proprietà. Si tratta di un atteggiamento volto a sollecitare queste proprietà, le cariche intrinseche ed estrinseche del linguaggio, e a provocare quei nodi e quegli incontri inediti e sconcertanti che possono fare della poesia una vera frusta per il cervello del lettore, che quotidianamente annaspa immerso fino alla fronte nel luogo comune e nella ripetizione.


Una poesia dunque come opposizione. Opposizione al dogma e al conformismo che minaccia il nostro cammino, che solidifica le orme alle spalle, che ci avvinghia i piedi, tentando di immobilizzarne i passi. Oggi più che mai questa è la ragione dello scrivere poesia. Oggi infatti il muro contro cui scagliamo le nostre opere rifiuta l’urto, molle e cedevole si schiude senza resistere ai colpi – ma per invischiarli e assorbirli, e spesso ottiene di trattenerli e di incorporarli. E’ perciò necessario essere molto più furbi, più duttili e più abili, in certi casi più spietati, e avere presente che una diretta violenza è del tutto inefficace in un’età tappezzata di viscide sabbie mobili.


E’in un’epoca tanto inedita, imprevedibile e contraddittoria, che la poesia dovrà più che mai essere vigile e profonda, dimessa e in movimento. Non dovrà tentare di imprigionare, ma di seguire le cose, dovrà evitare di fossilizzarsi nei dogmi, ed essere invece ambigua e assurda, aperta a una pluralità di significati e aliena dalle conclusioni per rivelare mediante un’estrema aderenza l’inafferrabile e il mutevole della vita. (196O).


(ibidem).

Quali sono i legami tra questa dichiarazione di poetica e l’osservazione di Anceschi, citata in precedenza, di una poesia che si muove “nel modo più rigoroso e resoluto” nella direzione di una “poetica degli oggetti”? Prendiamo in esame un testo poetico di Balestrini contenuto nell’antologia di Giuliani (1):

” OSSERVAZIONI SUL VOLO DEGLI UCCELLI


Sul pelo dell’acqua avanzare la pinna,


non si dovrebbe incoraggiare la gente a farlo,


dopo lui giunse (osserviamoli) tutta vestita di


(mentre) con un mazzo di rose bianco


sull’arenile c’erano ancora le aste; non si tratta


di un bisogno puramente sensuale (per gli antichi


Garamanti, il problema della comunicabilità); lasciamo


che la natura segua il suo corso, seguiamo


senza candele la direzione del naso, la cera


cavata dalle orecchie, le otto differenti


posizioni, nel cono d’ombra della terra


giace aperto, con gli occhi supini, l’acqua


non era molto alta, in piena bocca (due o più volte)


trafiggendo il cervello; fanno il bagno una volta


il mese, e poi Nadar lo fotografò.


Appressandosi la notte la folla va diradandosi;


ripulito del sangue delle sue vittime


(non sono in grado di dire con altra intonazione),


qualche volta considerato peccaminoso, è un semplice


problema matematico. Tu pensi ? io credo


avesse molti tentacoli, un crepitio più intenso


delle fiamme proseguendo il gioco e le parole


echeggiarono per le gallerie lunghe della mente.


La febbre nel sangue (non posso leggere),


l’intossicazione sul fiume, la prima volta verdissimi;


poi prese tutte le misure (per continuare) e sempre


più di quanto non avrebbe sperato i piedi


dissipati, le mani minuziose i vari modi


di innescare l’esca, infatti l’ultimo


inverno si è fermato di colpo nella gabbia.” (ibid.,p.159)

Se si torna alla definizione di “poetica degli oggetti” formulata da Anceschi, appare evidente il fatto che quel filone di poesia era caratterizzato, durante la prima metà del secolo, da una riduzione dell’invadenza dell’io lirico, e dal conseguente aumento di significazione e di carica espressiva conferito al mondo della realtà oggettiva.


Ma è proprio questa capacità di significazione della realtà oggettiva ad entrare in crisi nella poesia di Balestrini, almeno in quanto esprimibile nei termini del “comune linguaggio parlato”. La struttura contrappuntistica del testo riportato sopra, rafforzata dalle ripetute osservazioni parentetiche, provoca un effetto di “straniamento” espressivo, dove la voce dell'”osservatore” interagisce con il resoconto dell'”osservazione”, e l’alternarsi dei tempi verbali é guidato da una metodica volontà di rottura nei confronti della prassi comunicativa “normale”: “…fanno il bagno una volta / il mese, e poi Nadar lo fotografò.”. Volontà di rottura che è anche evidente nello “sventramento” operato sul “luogo comune”, sulle forme più palesemente sclerotizzate del linguaggio: “…seguiamo / senza candele la direzione del naso, la cera / cavata dalle orecchie…”.


Nella poesia di Balestrini, insomma, il referente di significazione non è affatto la “realtà oggettiva”, ma il linguaggio che pretende di oggettivarla e la impoverisce: l’operazione poetica, lungi dal conferire agli “oggetti” in quanto tali una qualsiasi carica espressiva, intende porsi come operazione esclusivamente linguistica, esibendo i propri artifici formali senza ricorrere ad alcun alibi ‘semantico”: “…i piedi / dissipati, le mani minuziose i vari modi / di innescare l’esca…”.


Gli oggetti presenti nella poesia di Balestrini perdono così ogni possibilità di significazione, non veicolano più alcun riferimento al mondo espressivo dell’autore. Che vengano estratti dal “comune linguaggio parlato”, oppure da discorsi di tipo specialistico, o ancora dalla tradizione umanistica e letteraria, gli oggetti-parole (secondo una definizione di Fausto Curi), decontestualizzati, diventano, nei componimenti in versi di Balestrini, componenti di un “collage”, ed il loro accostamento, se guardato con strumenti di lettura tradizionali, risulta essere del tutto arbitrario.


Vi è, certamente, una riduzione dell’io lirico che si può dire quasi assoluta (come afferma Giuliani, “il suo ideale è di scrivere poesie senza una sola parola, o una sola metafora, sua personale” – ibidem,p.29), ma questa scomparsa del soggetto non lascia spazio all’emergere di un mondo oggettivo colto nell’insieme delle sue relazioni e delle sue significazioni. Gli oggetti, le espressioni verbali, gli spezzoni di frase che galleggiano nei versi di Balestrini potrebbero comodamente essere sostituiti da altri oggetti, da altre espressioni, da altri frammenti, senza che la capacità di significazione del discorso (comunque potenzialmente infinita) risulti alterata. Dal “mare dell’oggettività”, attraverso una serie di procedimenti di “straniamento” fondati sull’equivalenza semantica, si passa al “mare dell’ambiguità”.


La poesia di Balestrini assume così i connotati di poesia della crisi. Ma non si tratta di una crisi della poesia, intesa come attività artistica dotata di una propria autonomia (che anzi nella poetica di Balestrini riveste, come si vedrà meglio in seguito, un importante valore conoscitivo per il disvelamento che opera sull’opacità del reale), né tantomeno, come accade invece per Sanguineti, la crisi investe il ruolo separato dell’intellettuale d’avanguardia, “produttore di cultura” soggetto alle leggi del mercato neocapitalistico.


La crisi è, per Balestrini, essenzialmente crisi del linguaggio, “inerte” ed incapace di interpretare in modo adeguato una realtà storica in profonda trasformazione. Balestrini parla, lo si è visto, di “frasi fatte e di espressioni convenzionali che stanno alla base del comune linguaggio parlato”, e, all’opposto, della necessità di cogliere “l’inafferrabile e il mutevole della vita”; trasposto su un altro livello, il suo discorso è per molti versi affine a quello condotto da Eco sulla maggiore o minore adeguatezza dei vari modelli formali a rendere conto di una determinata realtà storica e culturale.


Si tratta, insomma, di evidenziare la crisi di un linguaggio che non tiene il passo con i tempi, e, insieme, di opporsi a questa crisi, abbandonando le forme espressive tradizionali, che presupponevano un certo grado di mimetismo “naturale” del linguaggio nei confronti della realtà, per muoversi su un piano di trasgressione dei moduli linguistici sclerotizzati, che, proprio grazie all’asintattismo ed alla negazione di ogni semanticità scontata, riesca a gettare “una luce nuova sulle cose”. Anche per Fausto Curi, un critico partecipe in quegli anni delle esperienze della neoavanguardia, la poesia di Balestrini assume in questo senso una importante funzione gnoseologica:

“L’universo di Balestrini è un universo linguistico; ma non è più in grado di parlare e non si lascia parlare. E’ un universo di segni privi di referenzialità, un enorme vuoto semantico, un caos muto e indicibile. L’unica possibilità di parlare rimasta al poeta è quella di parlare mediante le cose già parlate. Il cumulo delle cose dette diventa allora un cumulo di cose da dire, una inesauribile riserva di effabilità. Al di sotto della logora superficie delle cose dette, esiste un intatto spessore semantico, un’effabilità di secondo grado. Si tratta di saperla scoprire e di impossessarsene, di organizzare, orientare, dinamizzare gli embrioni semantici che galleggiano nell’alvo della materia. (…) Nell’opera di Balestrini la poesia si spalanca alle cose, se ne gremisce. Eppure non ne è sommersa, se è solo per quel loro accalcarsi nella poesia che le cose riacquistano un senso, ridiventano significanti.” (Curi,1964).

La poesia di Balestrini si manifesta, dunque, sotto un duplice aspetto. Da una parte (alla base) vi è il momento dello straniamento, della decontestualizzazione di brandelli di discorso estratti dal linguaggio quotidiano (o colto), per una successiva ricomposizione di essi in un “collage” metodicamente disordinato, inteso a rivelare “il dogma e il conformismo che minaccia il nostro cammino”, e di conseguenza a frustare il cervello del lettore. Nasce da qui l’ipotesi critica dei redattori del “Verri”, e più in generale dei critici vicini alla neoavanguardia, che tende ad interpretare la poesia di Balestrini come giocata prevalentemente su un registro di beffarda ironia nei confronti dei meccanismi espressivi dominanti (2).


D’altra parte, l’atteggiamento poetico di Balestrini non si limita a candidarsi come momento di critica e di opposizione al deficit espressivo e comunicativo del “comune linguaggio parlato”, ma aspira a stimolare nel lettore la scoperta di aspetti inediti della realtà che lo circonda.


La poesia, nell’accezione di Balestrini, è, lo si è visto, un fatto essenzialmente linguistico, e l’autore non manca di evidenziarlo disseminando i propri componimenti di artifici retorici (allitterazioni, assonanze, ossimori) che tendono ad eliminare ogni possibilità di lettura tradizionalmente “sensata”. Eppure è proprio da questo magma linguistico, da questo “nonsense” fondato sull’equivalenza semantica delle varie parti del “collage”, che secondo Balestrini può nascere una poesia di tipo nuovo, in grado di rivelare, come in un’apparizione, aspetti della realtà normalmente nascosti dall’opacità con cui il linguaggio “comune” la rappresenta (“e da ultimo non saranno più il pensiero e l’emozione, che sono stati il germe dell’operazione poetica, a venire trasmessi per mezzo del linguaggio, ma sarà il linguaggio stesso a generare un significato nuovo e irripetibile.”).


L’arte combinatoria di Balestrini si pone dunque al servizio di una poesia che può e deve sgorgare direttamente dal linguaggio, quali che siano i frammenti “già parlati” scelti per confezionare il “collage” (3).


La poesia “estroversa” di Balestrini diventa il luogo deputato per un superamento non solo del conformismo linguistico, ma anche della rappresentazione ordinaria (e velata) della realtà. Nel meccanismo per definizione “aperto” della poesia, predisposto ad accogliere e a sistemare in un “disordine organizzato” ogni frammento di ogni discorso potenziale, rispunta così una visione dell’arte come luogo privilegiato per una epifania del “reale”.


 


3.2 Gli esperimenti elettronici.


Il 1961, per Balestrini, è un anno fondamentale. Esce, presso Scheiwiller, il suo primo libretto di versi, “Il sasso appeso”. Nell’ottobre, contemporaneamente all’apparizione (presso Rusconi e Paolazzi), dell’antologia de “I Novissimi”, viene pubblicato l'”Almanacco letterario Bompiani 1962″. Alla pagina 145 di quest’ultima opera, come si è accennato in precedenza (cfr.2.4), si trova il resoconto del primo esperimento elettronico di Balestrini, redatto dall’autore stesso sotto il titolo di “Tape Mark I”. La presentazione dell’articolo recita:

“Letteratura e arte hanno nell’ultimo cinquantennio costantemente prestato una attenzione vivissima ai fondamenti dei propri processi immaginativi e costruttivi, individuabili e riassumibili nelle successive fasi di decomposizione dei materiali precostituiti, e di ricomposizione in un risultato creativo.


In direzioni e con intenti diversi si sono avute le ricerche combinatorie del Livre di Mallarmé, di Raymond Roussel, di Arp, Joyce e Pound, delle ‘varianti’ di Ungaretti, di Leiris e Queneau, dei narratori del ‘nouveau roman’, degli americani Burroughs e Corso, di Heissenbuettel e altri tedeschi, dei nostri Sanguineti, Vivaldi e Porta. Simili ricerche hanno anche profondamente contrassegnato larghe zone della pittura (Klee, Dubuffet…), della scultura e dell’architettura, e, ancora più intrinsecamente, sono presenti in tutta la musica dopo Schoenberg.


In tale ordine di ricerche è stato compiuto questo esperimento che si è valso di un calcolatore elettronico per effettuare combinazioni di diversi elementi linguistici secondo un programma prestabilito.


E’ necessario far notare la sostanziale differenza con altre prove sul linguaggio svolte nell’ambito della cibernetica. Qui infatti non è stato posto il problema di ottenere dalla macchina una imitazione diprocedimenti propriamente umani, ma sono state semplicemente sfruttate le capacità del mezzo elettronico di risolvere con estrema rapidità alcune complesse operazioni inerenti alla tecnica poetica.


La utilità e la legittimità dell’impiego dei metodi e dei mezzi messi a disposizione dalla scienza e dalla tecnologia più progredita, intendendoli come integrazione dell’opera di creazione letteraria e artistica, si manifestano in accordo al nostro appartenere ad una civiltà industriale.” (Almanacco,1961,p.145).

Anche questa presentazione, in linea con quanto si è potuto rilevare a proposito degli altri testi che compongono la monografia “elettronica” dell’Almanacco”, ha un certo sapore di “captatio benevolentiae” nei confronti del lettore di formazione umanistica. In primo luogo, Balestrini elenca le tappe principali di una storia dell’arte “combinatoria”, da Mallarmé in avanti, e riconnette così il proprio esperimento a quelli effettuati dai “maggiori” esponenti di una tradizione di prestigio. Una tradizione che, secondo l’interpretazione di Balestrini, si è mossa in modo critico e coscientemente attivo verso una ridefinizione (ed una rivalutazione) dei concreti procedimenti artistici, degli aspetti più propriamente formali ed operativi della sfera estetica.


Ricondotto così il proprio esperimento nell’ambito di una tradizione, sia pure di “avanguardia”, l’autore avverte però il bisogno di legittimare ulteriormente l’utilizzo del “cervello elettronico” in sede letteraria, e lo fa appellandosi “al nostro appartenere a una civiltà industriale”. Dove appare chiaro che l'”opposizione” proclamata in altri luoghi da Balestrini (della quale, comunque, qui non si avverte traccia) agisce esclusivamente a livello linguistico – formale, nei confronti delle forme letterarie e poetiche dominanti, che l’autore (come del resto tutta la neoavanguardia) reputa inadeguate rispetto alla civiltà del progresso tecnologico ed industriale. Nei confronti di quest’ultima, non vi è alcuna posizione critica negli scritti del primo Balestrini, che, anzi, sembra trovarsi pienamente a proprio agio ed in accordo con lo “spirito del tempo”.


L’esperimento elettronico di Balestrini trae la sua origine dall’installazione, avvenuta nel 196O, di un elaboratore 7O7O dell’IBM presso la sede centrale della Cassa di Risparmio delle Province Lombarde. Ci si trovava allora in una fase pionieristica per quanto riguarda la diffusione dell’elettronica nel nostro paese: quello in oggetto era il terzo elaboratore a transistors installato nella capitale del “boom economico”, e non è da trascurare la forte sensazione che i “cervelli elettronici” provocavano in quel periodo ai non addetti ai lavori. Non era quindi infrequente, secondo il dottor Alberto Nobis, il tecnico della IBM responsabile di quell’installazione ed autore materiale del programma utilizzato nell’esperimento, l’accesso ai locali dove era custodito l’elaboratore da parte di persone estranee all’istituto bancario.


Il progetto di versificazione elettronica nacque così, in modo estremamente informale, dall’incontro di Nanni Balestrini con il dottor Nobis, sfruttando i tempi morti di una macchina le cui capacità di memoria e di elaborazione non erano ancora utilizzate appieno dalla banca, ed il clima di eccitazione pionieristica che, nel 1961, spingeva chi lavorava nel mondo degli elaboratori a sperimentarne le potenzialità di impiego nelle direzioni più svariate. Nessuna “sponsorizzazione”, quindi.


Il resoconto redatto da Balestrini sull’almanacco, corredato da riproduzioni di fogli di tabulato, diagrammi di flusso, e di una parte del programma in “linguaggio macchina”, è abbastanza esauriente per quanto riguarda la parte ideativa e progettativa dell’esperimento:

“E’ stato predisposto un testo formato da tre brani tematicamente differenti, suddiviso in sintagmi (elementi) formati ciascuno da 2 o 3 unità metriche. Ciascun elemento è stato contraddistinto da un codice di testa e da un codice di coda, indicanti le possibilità sintattiche di legame tra due elementi successivi.


L’intervento dell’elaboratore elettronico consiste nella composizione di una poesia di 6 strofe, formata ciascuna da una diversa combinazione parziale del testo dato. Le strofe dovranno risultare di 6 versi ciascuna, ogni verso costituito da 4 unità metriche.


Questo primo tentativo è stato condotto su un testo breve e con istruzioni per la sua elaborazione molto semplificate e in numero limitato, in modo da permettere facilmente controlli e verifiche. Nuovi esperimenti, oltre che impiegare un testo più ampio, potranno tenere conto anche di regole grammaticali, dei valori semantici e fonetici del linguaggio, e di una metrica più complessa.” (ibidem).

La scelta dei brani da cui estrarre i sintagmi dacombinare non fu casuale. I tre frammenti furono presi dal “Diario di Hiroshima” di Michihito Hachiya, da “Il mistero dell’ascensore” di Paul Goodwin e dal “Tao te king” di Lao Tse. Tre testi “letterari”, da cui vennero scelti brani particolarmente “evocativi”, non certamente in linea con l’intento di servirsi del “comune linguaggio parlato” dichiarato da Balestrini a proposito delle sue poesie “manuali”.


Il procedimento che guida la versificazione elettronica non si discosta però molto da quello utilizzato negli altri luoghi della produzione poetica di Balestrini, se non, paradossalmente, per un grado minore di “sperimentalismo” linguistico. Si tratta anche qui, dopo aver scisso in unità minimali i materiali linguistici preeesistenti, di ricombinarli in un “collage” metodicamente preordinato, come dimostrano le istruzioni che servirono da guida per la preparazione del programma da elaborare:

“I. Effettuare combinazioni di 1O elementi sui 15 dati senza permutazioni e ripetizioni.


II. Ogni elemento dovrà essere seguito da altro elemento che presenti nel codice di testa una cifra corrispondente ad una delle due formanti il codice di coda del primo elemento.


III. Ogni elemento non potrà essere seguito da altro elemento appartenente allo stesso gruppo.


IV. Suddividere le catene di 1O elementi in 6 versi di 4 unità metriche ciascuno.”.

Il testo, suddiviso in tre gruppi corrispondenti alle opere di provenienza dei singoli frammenti, ed opportunamente formalizzato per poter servire come “input” all’elaboratore, appariva in questo modo:

“CODICE DI TESTA – TESTO – CODICE DI CODA”


I. (da Diario di Hiroshima di Michihito Hachiya).


1/4 l’accecante / globo / di fuoco 2/3


1/2 si espande / rapidamente 3/4


2/3 trenta volte / più luminoso / del sole 2/4


3/4 quando raggiunge / la stratosfera 1/2


1/3 la sommità / della nuvola 2/3


2/4 assume / la ben nota forma / di fungo 3/4


II. (da “Il mistero dell’ascensore” di Paul Goodwin).


1/4 la testa / premuta / sulla spalla 2/4


1/4 i capelli / tra le labbra 2/4


2/3 giacquero / immobili / senza parlare 2/3


3/4 finché non mosse / le dita / lentamente 1/3


3/4 cercando / di afferrare 1/2


III. (da “Tao te King”, XVI, di Laotse).


1/2 mentre la moltitudine / delle cose / accade 1/2


2/3 io contemplo / il loro ritorno 3/4


1/2 malgrado / che le cose / fioriscano 2/3


2/3 esse tornano / tutte / alla loro radice 1/4 “

La regolazione delle concordanze sintattiche, che il programma gestiva con semplici controlli sui codici di testa e di coda di ciascun elemento, era dunque demandata ad una formalizzazione preventiva, effettuata dall’operatore umano, dei dati di “input”, e non ad un’analisi semantica interna al programma stesso. In questo modo, attribuiti ad ogni sintagma i relativi “codici di testa” e “codici di coda”, e dato l’esiguo numero di elementi presenti in input, non era difficile prevedere almeno in larga misura le possibilità di combinazione realizzabili. I vincoli posti tramite la codificazione escludevano l’accostamento di sintagmi tipologicamente affini, garantendo la creazione di strutture linguistiche non troppo dissonanti da un punto di vista sintattico; nello stesso tempo, evitando la contiguità di frammenti derivati dal medesimo testo, era assicurato un certo livello di originalità semantica della combinazione prodotta dal calcolatore.


Ogni processo elaborativo, come risulta dalle indicazioni fornite da Balestrini nel suo resoconto, aveva una durata di circa sei minuti, e produceva un numero di combinazioni effettivamente realizzate (“catene”) variabile in dipendenza dall’ordinamento dei sintagmi nella tabella iniziale che forniva l’input al programma (“Delle elaborazioni eseguite, alcune non hanno dato alcun risultato, quattro hanno dato risultati validi sufficienti per fornire le 6 strofe della poesia”).


Il testo finale pubblicato sull’almanacco Bompiani non fu però scelto fra uno di quelli prodotti dalle quattro elaborazioni valide. Sul materiale “grezzo” ottenuto, Balestrini operò delle scelte successive (probabilmente dopo una valutazione della maggiore o minore “poeticità” delle singole “catene”), per combinarlo a sua volta nuovamente nelle sei strofe desiderate. Seguì poi una normalizzazione sintattica, con la risoluzione di ogni dissonanza di genere e numero, l’introduzione della punteggiatura, e perfino alcune modifiche tese a rendere accettabile la “consecutio temporum”.


Interventi necessari, secondo Balestrini, “a causa del numero limitato di istruzioni impiegate nell’elaborazione del testo” (ibidem,p.149). Il quale testo, così normalizzato, assomiglia ben poco a quelli realizzati dal Balestrini poeta “manuale”. Tanto quelli si proponevano come “aperti”, quanto questo è chiuso nella sua struttura formale ordinata e regolare; dell’asintattismo, della “vena claunesca”, della trasgressione linguistica non è rimasta traccia.


La poesia elettronica, in questo primo esperimento, è senza scampo “poetica”: un certo sapore surrealista, derivante dall’accostamento di sintagmi provenienti da contesti differenti, è attenuato dal fatto che i tre brani prescelti non presentano differenze molto marcate dal punto di vista del registro espressivo. La visione ciclica della storia che traspare dai frammenti del brano di Lao Tse si integra senza troppa difficoltà con l’inquietudine gestuale di quelli tratti dal testo di Goodwin; mentre i sintagmi derivati dal “Diario di Hiroshima”, integrati in quel contesto dall’elaboratore e normalizzati da Balestrini, evocano meno la catastrofe atomica che non estatiche esperienze di sapore mistico – astronautico.


Nel 1962, Balestrini entra a far parte della redazione della casa editrice di Giangiacomo Feltrinelli. Qui ha modo di mettere in luce le proprie capacità nel campo dell’organizzazione culturale: si deve fondamentalmente a lui, secondo Barilli e Guglielmi (Barilli – Guglielmi ed., 1976,pp.23-26) l’apertura degli spazi editoriali della “Feltrinelli” alla pubblicazione dei materiali poetici, critici e narrativi della neoavanguardia, nonché la promozione (Barbato, 1966) del convegno di Palermo che sancisce la nascita del “Gruppo 63”.


Finalmente, nell’ottobre del 1963, esce presso Feltrinelli il secondo volume di poesie di Balestrini, “Come si agisce”, che porta il sottotitolo “Poemi piani”. Un’indicazione dell’autore avverte:

“Le poesie che compongono ciascuno dei quattro poemi di questo libro si sviluppano su una superficie piana. Considerandolo in questo modo, si determinano tra di esse differenti relazioni e ordini di lettura, come appare evidente dalle tavole riprodotte nell’Appendice”.

Un’opera “aperta”, dunque, che presuppone un intervento attivo del lettore, sulla base degli schemi predisposti da Balestrini, per essere fruita in modo compiuto e non episodico, per lasciare traccia, come del resto attesta il tono ironicamente didattico del titolo.


“Avremmo potuto farne a meno”. E’ il verso con cui si apre la raccolta, teso a sottolineare al lettore la gratuità, la “non sacralità” dell’operazione poetica in questione (anche se, secondo Giuliani, bisogna ricordare che “l’apparente gratuità di Balestrini ha un significato precisamente rivoluzionario”). In “Come si agisce” coesistono più motivi “didattici”. Innanzitutto, il volume pubblicato da Feltrinelli contiene la “summa” delle attività artistiche del primo Balestrini, esercitate nei settori meno tradizionali. Nel terzo “poema”, nella sezione intitolata “Continua”, sono riportati il testo del primo esperimento elettronico, “Tape Mark I”, e la “Trascrizione di una poesia acustica realizzata su nastro a mezzo delle apparecchiature elettroniche dello Studio di fonologia musicale della RAI, Milano, nell’aprile 1962”. Nell’appendice, dopo le “tavole di lettura”, vi è una sezione di “poesia concreta”, ovvero una serie di “collages” visivi, composti accostando ritagli di stampa, estratti da testi diversi e con diversi caratteri tipografici, esposti per la prima volta nel novembre del 1961 alla libreria “Ferro di Cavallo” di Roma. L’ultima sezione dell’appendice, intitolata “poesia elettronica”, riporta, dopo una nota esplicativa, i risultati della seconda esperienza di Balestrini con l’elaboratore.


Dal punto di vista dello sperimentalismo linguistico ed espressivo, “Come si agisce” appare veramente come un “novissimo manuale di metrica”. I sintagmi, per lo più, sono sospesi nel verso, alternati a spazi bianchi, per eludere ogni possibilità di interpretare il collegamento tra di essi sulla base di una “necessaria” contiguità semantica, di un normale “filo del discorso”.


A volte il verso, dilatato o contratto, si chiude a metà di una parola; in altre occasioni, la ripetizione di un carattere tipografico lo occupa per intero; in altre ancora, apparentemente più decodificabili, la frequenza di allitterazioni e di ossimori, e la discontinuità sintattica, non consentono al lettore alcun tipo di interpretazione tradizionalmente semantica. Nulla di originale, ovviamente, dal momento che questi “modi di formare” sono ripresi dalle esperienze dell’avanguardia dell’inizio del novecento.


Eppure, in questo campo di avvenimenti “puramente linguistici”, la gratuità proclamata da Balestrini non è per questo meno cogente, ed il meccanismo poetico si presenta anzi, minacciosamente (5), come generatore di un flusso potenzialmente ininterrotto (“Continua”, “per continuare”, “non si può farne a meno”, “non smettere” , e affini, sono sintagmi statisticamente molto frequenti nei versi di Balestrini). Sanguineti interpreta acutamente questa “coazione a ripetere”, tipica della poesia di Balestrini, alla luce del progetto di descrizione di poesie virtuali riportato da Eco, che ne era autore insieme allo stesso Balestrini, in “Opera aperta” (cfr.2.2):

“Ma si può anche prevedere, a questo medesimo punto, che l’obiezione è stata, non soltanto prevista, ma trasformata, da Balestrini, in collaborazione con Eco, in un principio di estetica: è nata così l’idea, poiché per definizione non poteva nascere di più, come vedremo, di quelle poesie virtuali, di cui Eco parlava proprio in un suo articolo di un anno fa, cioè tali che esistono solo nella descrizione critica del modo di formare che le forma, ossia le formerebbe se le formasse, e che pertanto possono e devono esimersi dall’incarico di esistere concretamente. La poesia diviene superflua perché induttivamente non giova: la sua rappresentazione saggistica l’abolisce in partenza, e l’intiera biblioteca di Babele può stare in un quadernetto tascabile. (…) Ma vi è ancora di peggio, naturalmente, o di meglio: che l’idea di una descrizione della poesia, e già lo notava subito Eco, rende inutile, con la poesia, la descrizione medesima, ‘dato che’ – cito testualmente – ‘l’idea di uno scritto del genere era già più significativa ed importante dello scritto stesso.’ Che è l’idea di una idea della poesia. Esito chiaramente mistico, che configura il calarsi nella materia di un principio ideale, non già come felice epifania della medesima, e nemmeno, che sarebbe già una bella e pacifica cosa, come dolente o immonda deiezione, ma come oziosa superfluità. Tutto ciò sta, necessariamente, e consapevolmente, sopra la strada, inclinata e praticabilissima, della morte dell’arte.” (Sanguineti,1964).

Non bisogna dimenticare, però, che dal punto di vista di Balestrini la poesia svolge la propria funzione essenzialmente su un piano di critica e di opposizione. Nel mare dei sintagmi “combinati” di “Come si agisce”, galleggiano anche, immediatamente riconoscibili, dichiarazioni di poetica che possono essere interpretate in questa direzione. Nella sezione “Continua”, ad esempio, è contenuta una poesia dal titolo “Destructio destructionis”:

“Con elementi sconnessi che si succedono per rapide


associazioni il fissarsi modificando una condizione


del significato delle parole reale insostenibile


per trarne mette in crisi il rapporto determinate


conclusioni circa il proprio comportamento con le idee


Dato un insieme di elementi distinguibili uno


dall’altro bisogna porsi due domande che cosa


non più l’individuo e in che punto appare sulla scena


con i loro destini personali privati fa dello spettatore


un osservatore attivo ma l’epoca stessa


I quali differiscono tra loro per qualche elemento


che subiscono affezioni da questi oggetti che percepiscono


la dipendenza in generale che si ricordano di ogni cosa


attivamente da molte altre che fanno progetti che mutano


su di essi, che agiscono con essi ecc.


O per l’ordine degli elementi il significato risulta


ogni combinazione di segni rapidamente e apparentemente


quasi senza fatica dipinge fedelmente


la scena è il piano più precisamente una


combinazione la superficie d’idee limitata


E intensificare la frattura facendone un elemento


di accusa e il giorno dell’impazienza e trasformabile


che pronuncia si districa e un futuro evocato


solo a forza di volontà l’emendamento delle cose


guaste e lo abbiamo fatto del tutto deliberatamente”.

La frattura evocata da Balestrini è, lo si è visto, quella che si è venuta a determinare tra il linguaggio e la realtà che esso pretende di rappresentare, tra le “parole” e le “cose”: l’intensificarla, il “mettere in crisi il rapporto”, manipolando l’insieme di “elementi sconnessi”, determina un “elemento di accusa” che contribuisce a promuovere “l’emendamento delle cose guaste”, a rimuovere le cause della frattura stessa. I quattro “poemi” di “Come si agisce” si concludono con una sezione intitolata “Lo sventramento della storia”, nella quale il discorso critico di Balestrini, per quanto svolto nell’ambito dell’abituale contesto asintattico, si fa più esplicito che in altre parti del libro.


Ciò a cui è necessario opporsi, per Balestrini, è in primo luogo l’eredità dello storicismo: “Che un’altra storia è possibile / se noi vogliamo” (ibidem,p.172) sono i versi di apertura della sezione. Soprattutto, è da criticare l’impostazione totalizzante dello storicismo quando pretende di risolvere le discontinuità e le contraddizioni del reale nell’ambito del proprio modello interpretativo omogeneo: “Abolire la struttura da lager che impone lo storicismo la struttura maggioritaria / diceva se noi vogliamo / che inevitabilmente impone l’intimo fascismo di tutti gli storicismi” (ibidem,p.179). Ma se questo modello interpretativo della realtà storica è entrato in crisi e va demistificato, “il problema non si risolve con una sostituzione di principii” (p.173), utilizzando un diverso modello, “giacché ogni struttura di valori oggi è una struttura falsa è una struttura / falsificante e il traffico fatto più intenso e qualsiasi / struttura di valori qualsiasi ordine che noi proponiamo o che noi impostiamo / e inghiottendo è un ordine falso è un ordine falsificante” (pp.18O-181). Partendo dallo storicismo, la critica e l’opposizione di Balestrini arrivano dunque a coinvolgere qualsiasi modello interpretativo della realtà fondato su una scala di valori. Come nota il critico Roberto Esposito,

“La distanza che separa Balestrini dalle posizioni più moderate di altri sperimentalisti emerge con chiarezza: qualsiasi intenzione di rappresentare la realtà esistente ed il suo modo di essere schizomorfo e reificato, qualsiasi pretesa di significarla in altro modo, pure se in forma di mimesi critica, è a sua volta mistificazione e tradimento d’un impegno di negazione totale. Il linguaggio non può significare altro che la propria incapacità di significare gli oggetti.” (Esposito,1976,p.14O).

Nel suo saggio su Balestrini, Esposito si sofferma con particolare attenzione sulla critica condotta dal poeta milanese nei confronti dello storicismo, collegandola “a quel filone dell’arte contemporanea direttamente influenzato dall’estetica di Max Bense e in genere dall’estetica informazionale” (ibidem,p.141). La negazione di ogni possibilità di interpretazione “semantica” della realtà, la critica allo storicismo, il meccanismo formale combinatorio ed asintattico, che esclude dal proprio ambito la sfera del contenuto, sono elementi che acquistano un senso per Esposito solo alla luce degli esperimenti elettronici di Balestrini, come parti di un progetto di “estetica tecnologica-generativa”:

“E’ chiaro che, senza voler sovraccaricare di significato un’operazione tranquillamente circoscrivibile, per quanto riguarda i suoi esiti formali, alle modeste dimensioni del suo intento scandalistico, ci troviamo di fronte ad un momento notevolmente alto e riassuntivo dell’ideologia sperimentalistica: definito non più, o non solo, dal campo di progettazione e di innovamento dei contenuti teorico-formali, ma dalla problematica più complessa del modo di produzione di quei contenuti. (…) ciò che il mercato richiede è la definizione di un modello di ripetitività e di un brevetto di riproducibilità di tale costruzione. E’ la produzione in serie che subentra alla produzione artigianale, la programmazione che penetra gli argini finora invalicabili del tempio dello spirito.” (ibidem, pp.154-158)

La suggestiva interpretazione di Esposito forza un po’ i termini della questione, presupponendo nell’atteggiamento poetico di Balestrini una elevata consapevolezza riguardo alle potenzialità sociali e culturali del mezzo elettronico ed attribuendogli una lucida volontà di piegare il discorso artistico della neoavanguardia alle necessità (future!) del mercato culturale e del neocapitalismo.


E’ vero che, all’epoca degli esperimenti di Balestrini, l’opera di teorici quali Bense e Moles, che effettivamente prefigurava un simile utilizzo dell’elettronica in campo artistico, già cominciava a circolare negli ambienti della neoavanguardia (6), dove incontrava un terreno favorevolmente predisposto ad accogliere ogni impostazione estetica di taglio “scientifico”, antiidealista ed antistoricista. Non sembra dimostrabile, però, che in quegli anni l’attività di Balestrini si sia articolata secondo la logica di un progetto di “estetica tecnologica e generativa” affine a quello bensiano, nonostante la radicalità dello stravolgimento semantico operato nella sua poesia, l’apologia del “disordine” e del “caso”, e la scandalosità (del resto episodica) del suo utilizzo sperimentale di un “cervello elettronico”.


Il resoconto della seconda esperienza elettronica, posto a conclusione di “Come si agisce”, conferma tra l’altro la scarsa validità euristica e teorica degli esperimenti stessi, che a nostro avviso vanno valutati più nell’ambito dello sviluppo complessivo della poetica dell’autore che non in relazione a progetti di “informatizzazione globale” al servizio del mercato neocapitalistico.


Effettuato nell’aprile del 1963, sempre presso la sede centrale della Cassa di Risparmio delle Province Lombarde, questo secondo esperimento presentava alcune differenze sostanziali rispetto al primo, ma non nella direzione che sarebbe stato lecito attendersi. Il resoconto pubblicato sull’almanacco Bompiani, come si è visto, tracciava infatti una strada per il futuro, affermando che “nuovi esperimenti, oltre che impiegare un testo più ampio, potranno tenere conto anche di regole grammaticali, dei valori semantici e fonetici del linguaggio, e di una metrica più complessa.”.


“Tape Mark II” rispetta solo il primo di questi requisiti, utilizzando per il processo combinatorio novanta sintagmi, estratti questa volta dai versi di “Come si agisce”, al posto dei quindici di “Tape Mark I”. Quanto al resto, non solo il secondo esperimento non evidenzia alcun progresso nel trattamento grammaticale, semantico e metrico dei dati linguistici offerti al processo combinatorio (il che fra l’altro avrebbe richiesto ben altro tipo di competenza, di strumenti, e di ricerche), ma l’emissione del testo “elettronico” avviene mediante una logica elaborativa addirittura semplificata, rispetto a quella che aveva prodotto “Tape Mark I”. Ecco il resoconto di questo secondo esperimento:

“Gli elementi combinati corrispondono a sintagmi tratti dalle poesie che compongono questo libro. L’elaborazione del calcolatore consiste nel formare una serie continua di catene di elementi, le quali danno luogo a strofe di 5 versi di 3 elementi ciascuno.


Ogni catena è il risultato di una scelta di 15 elementi operata su un gruppo di 3O, secondo uno schema di generazione di una serie casuale di numeri che segue una semplice regola sintattica. A ogni scelta il gruppo base viene modificato per l’eliminazione di un elemento e l’introduzione di uno nuovo. Si ottengono così le 6O strofe delle sezioni AB e BC e, completando circolarmente il processo combinatorio, le 3O strofe della sezione CA.” (Balestrini,1963,p.2O9).

La logica elaborativa, come si diceva, appare molto semplificata rispetto a quella che guidava il primo esperimento, e l’impressione è confermata dal fatto che le 12OO istruzioni di macchina del programma di “Tape Mark I” sono ridotte ora a 531. In particolare, sono stati eliminati tutti i controlli di associazione, che limitavano la possibilità di accostamento reciproco degli elementi, sulla base dell’appartenenza a gruppi separati (con l’obbligo di non rendere contigui elementi dello stesso gruppo), e di una codificazione preventiva della loro potenziale valenza sintattica.


I sintagmi, in questo secondo esperimento, sono considerati come appartenenti ad un gruppo omogeneo di “input”, e non vi è più vincolo alcuno alla loro libera associazione. Date queste premesse, sussisterebbero ora le condizioni necessarie per uno sviluppo permutativo dell’elaborazione, tendente a realizzare tutte le possibili combinazioni dei novanta elementi senza tralasciarne alcuna.


La strada scelta da Balestrini è molto meno dispendiosa. Suddivisi inizialmente i sintagmi in tre gruppi di trenta ciascuno, il programma tratta, per ogni sezione di trenta strofe, esclusivamente uno dei tre gruppi, pur variato nella sua composizione dalla sostituzione, effettuata dopo la realizzazione di ogni strofa, di un elemento del gruppo originario “X” con uno del gruppo “Y”.


Il procedimento è abbastanza semplice. Prescelti quindici elementi del gruppo “X” a formare la prima strofa di cinque versi, il programma accantona il primo dei tre presenti nel primo verso, e lo sostituisce con il primo disponibile del gruppo “Y”. La composizione della strofa successiva avviene sulla base della posizione dei sintagmi all’interno dei versi di quella precedente. Ad esempio, un elemento che nella prima strofa era nella terza posizione del quarto verso, si ritroverà, nella strofa successiva, alla seconda posizione del secondo verso; un altro, che era nella seconda posizione del quinto verso, si ritroverà nella terza posizione del terzo verso. Alcuni elementi della prima strofa, non presenti nella seconda, lo saranno nella terza (sempre in posizioni determinate da quelle che avevano assunto in precedenza); al loro posto, nella seconda strofa si troveranno elementi del medesimo gruppo “X” non presenti nella prima.


Il procedimento, complesso da descrivere, non lo è però nella logica elaborativa; ogni sezione termina quando tutti gli elementi del gruppo “X” originario sono stati sostituiti da quelli del gruppo originario “Y”.


Al posto dell’esame di compatibilità sintattica fra elementi opportunamente codificati, che guidava il primo programma, quello di “Tape Mark II” si basa dunque su una tabella rigida di apparizioni degli elementi nelle strofe di una sezione. I sintagmi compaiono nel testo sulla base di una sequenza ciclica preordinata rispetto al numero di strofe ed alla posizione assunta al loro interno: se si trascura per un momento la suddivisione in versi, e si considera la strofa come formata da una tabella di quindici valori, appare chiara la sequenza di apparizioni degli elementi, che inizia con l’ottava posizione di una determinata strofa (seconda posizione del terzo verso), per finire, dopo trenta strofe, alla prima posizione, dopo di che il sintagma viene sostituito. Se nel ciclo di trenta strofe segnaliamo con un asterisco quelle in cui il sintagma non compare, la sequenza delle posizioni che esso assume è questa:

(inizio ciclo) 8 – * – 2 – * – 12 – 5 – 1O – 13 – * – 3 – * – 7 – * – * – * – 15 – * – * – 4 – 11 – * – * – * – * – 6 – * – 14 – 9 – * – 1 (fine ciclo)

Questa è la “semplice regola sintattica” di cui parla il resoconto del secondo esperimento, mentre in cosa consista lo “schema di generazione di una serie casuale di numeri” non è dato sapere. Tutto è infatti rigidamente programmato, e l’unico elemento di “casualità” è forse riscontrabile nella composizione dei tre gruppi base di trenta elementi ciascuno effettuata a monte del ciclo elaborativo.


Al risultato dell’elaborazione Balestrini non apportò questa volta nessuna “normalizzazione” successiva, evitando di modificare le concordanze prodotte dall’elaboratore e di introdurre la punteggiatura, e conservando intatte l'”apertura” e la polivocità semantica determinate dal meccanismo formale combinatorio. Il risultato finale, “Tape Mark II”, che conclude il volume pubblicato da Feltrinelli e gli esperimenti elettronici di Balestrini, appare così perfettamente in linea con i componimenti “manuali” del poeta milanese, come non manca di notare Sanguineti in una nota posta sul retro di copertina di “Come si agisce”:

“Il libro di Balestrini, radicalmente e semplicemente, ignora la possibilità della chiusura formale: una calcolata combinazione che viene proposta, esplicitamente, come scelta fra le infinite combinazioni possibili del materiale linguistico, in un universo tutto formato di mere possibilità e di combinazioni linguistiche. La macchina, a questo punto, può certamente aiutare, ma non può, altrettanto certamente, far meglio del poeta, in materia di arte combinatoria.”.


 

3.3 Le reazioni della critica agli esperimenti.


Tentare di ricostruire una bibliografia critica veramente esaustiva nei riguardi di un avvenimento culturale di venticinque anni fa, nelle attuali condizioni di ricerca, non è facile. Senza alcuna pretesa di completezza, però, ci è sembrato comunque utile verificare l’impatto avuto dagli esperimenti di Balestrini nel contesto della società letteraria italiana di quell’epoca, in quanto è solo nell’ambito di quel contesto, a nostro avviso, che essi possono essere adeguatamente interpretati.


Ci si è valsi, a questo scopo, dei materiali raccolti dall’agenzia “L’eco della Stampa”, e messi gentilmente a disposizione dagli archivi delle case editrici Bompiani e Feltrinelli, per quanto riguarda rispettivamente il primo ed il secondo esperimento elettronico. Si tratta di recensioni e di articoli tratti da quotidiani e periodici, questi ultimi per lo più non di tipo specialistico, che si riferiscono globalmente all'”Almanacco letterario Bompiani 1962″ ed a “Come si agisce”; ma, significativamente, il loro nucleo tematico è appunto dedicato alle prove di “poesia elettronica” di Balestrini.


Prima di entrare nel merito delle posizioni critiche emerse nei confronti del primo esperimento, è però necessario soffermarsi sul breve commento ad esso che, a chiusura della parte monografica dell’almanacco, Umberto Eco aveva inserito nel suo articolo “La forma del disordine”. Scriveva Eco:

“Questo è molto importante: in altra parte dell’Almanacco troveremo le poesie elettroniche di Nanni Balestrini. Con la complicità di un poeta e di un ingegnere programmatore, il cervello IBM ha sparato più di tremila variazioni dello stesso gruppo di versi, tentando tutte le combinazioni che le regole di partenza gli davano come possibili. Se andiamo a cercare tra i tremila risultati ne troveremo alcuni insulsi, altri (pochi, mi pare) di altissima temperatura lirica, che non avremmo esitato ad attribuire ad un cervello umano. Ma è proprio qui l’errore: questi pochi risultati elettissimi, probabilmente Balestrini sarebbe stato in grado di ottenerli da solo a tavolino; scelti i versi, poco ci voleva a metterli insieme nel modo più acconcio “alla maniera di”, o comunque in armonia con certe correnti di gusto. L’opera del cervello elettronico, e la sua validità (se non altro sperimentale e provocatoria) consiste invece proprio nel fatto che le poesie sono tremila e bisogna leggerle tutte insieme. L’opera intera sta nelle sue variazioni, anzi nella sua variabilità. Il cervello elettronico ha fatto un tentativo di “opera aperta”. (…).


Con questo tali esperimenti si allineano a molti altri e attraverso tutti l’arte contemporanea adempie una delle sue funzioni principali, col provvedere cioè all’uomo d’oggi traduzioni immaginative della realtà naturale che la scienza gli definisce.” (Almanacco, 1961).

Il tono del commento di Eco, rispetto a quello del contiguo resoconto di Balestrini, è molto meno “tecnico” e giustificatorio, e l’interpretazione offerta ha un sapore di stimolo polemico e provocatorio ben preciso, nei confronti del lettore di formazione umanistica. Non solo il “cervello elettronico” si può sostituire al poeta nella produzione artistica: la “sua” poesia, con la compresenza “simultanea” di molteplici varianti, modifica profondamente le modalità costitutive della produzione estetica, manifesta l’obsolescenza delle opere “chiuse” prodotte artigianalmente a tavolino, contribuisce a fornire all’uomo contemporaneo le “traduzioni immaginative” atte a comprendere ed interpretare la realtà “scientifica” che lo circonda.


La linea interpretativa provocatoriamente proposta da Eco non mancò di influenzare il tono delle recensioni all’esperimento di Balestrini. I recensori, invece di dirigere la propria attenzione verso un’analisi del testo “elettronico” e delle forme di produzione di esso, considerarono per lo più l’esperimento di Balestrini come un “segno” delle trasformazioni del mondo letterario e culturale dovute all’avvento della “civiltà delle macchine”, evidenziando così la propria appartenenza al partito (non troppo affollato, in verità) degli apologeti del progresso scientifico e tecnologico oppure a quello degli scandalizzati custodi della tradizione umanistica.


La recensione di Livio Zanetti sull'”Espresso” del 1O dicembre 1961 sfugge a tale dicotomia, descrivendo con una certa cura le caratteristiche dell’esperimento, e dimostrando anche una ricchezza di informazioni su di esso di gran lunga superiore a quella dei critici che se occuperanno in seguito. Il titolo della recensione, “Bompiani ordina poesie a macchina”, è supportato da un occhiello che afferma con sicurezza: “Il cervello elettronico entra nella storia della letteratura”. Un certo sensazionalismo traspare anche dai primi capoversi dell’articolo, che peraltro precisano meglio l’affermazione contenuta nel titolo:

“Milano. La macchina che fa le poesie si chiama Mark I, sta in via Verdi 21, in un ufficio della Cassa di Risparmio delle Province Lombarde. Alta pressappoco come un uomo piccolo e larga quattro metri e mezzo, a vederla sembra un gigantesco flipper con migliaia di scatti, accensioni, magnetismi, piccoli rantoli, e con attorno una mezza dozzina di tecnici in camice bianco. (…).


L’idea di usarla per una tipica operazione poetica come quella di mettere insieme parole e contare sillabe e accenti, venne sei mesi fa a un funzionario della casa editrice Bompiani, che quest’anno dedica la parte centrale del suo ‘Almanacco letterario’ a un panorama delle applicazioni di calcolatrici elettroniche alla ricerca filologico-letteraria.” (Zanetti,1961).

Zanetti, dopo aver tracciato un breve ritratto ironico del Balestrini “poeta d’avanguardia”, delinea i presupposti ed i vincoli che hanno guidato l’utilizzo dell’elaboratore, prima di descrivere le modalità operative dell’esperimento:

“In che modo impiegare la macchina? Fino a che punto? Praticamente (Balestrini,ndr) avrebbe potuto infilarle dentro il vocabolario e mettersi ad aspettare. Ormai il vecchio aforisma di Einstein, che se si prende uno scimpanzè e lo si mette davanti alla macchina da scrivere dopo qualche milione di anni esce fuori l’ ‘Amleto’, oggi è diventato verificabile. Ma ci vuole sempre abbastanza tempo, e lavoro. Balestrini ha preferito semplificare i compiti alla macchina Mark. Gli è parso più opportuno adoperarla come una volta si usava il rimario, cioè come espediente tecnico con funzioni limitate. Così ha preso alcuni pezzi di periodo (una quindicina) e ha ordinato a Mark di rimetterli insieme secondo tutte le combinazioni e secondo determinate cadenze tecniche.” (ibidem).

Per quanto redatta nel tono, a metà tra l’ironico e il descrittivo, tipico degli articoli “di costume” la recensione di Zanetti non pone comunque critiche esplicite all’esperimento di Balestrini, a differenza di quanto avverrà negli interventi successivi.


L’unico articolo apertamente elogiativo che si è potuto reperire, infatti, dal titolo “Un esperimento di composizione poetica compiuto con elaboratore elettronico”, apparve il 27 dicembre 1961 sul periodico “La provincia pavese”, e reca la firma dello stesso Balestrini:

“E’ stato compiuto recentemente a Milano un interessantissimo esperimento di composizione poetica ottenuta con l’impiego di un calcolatore elettronico.” (Balestrini, 1961).

Questo il debutto dell’autorecensione, il cui svolgimento successivo segue fedelmente la parte iniziale del resoconto pubblicato sull’almanacco.


Sull’ “Europeo” del 14 gennaio 1962 il critico Carlo Bo pubblica un articolo dal titolo “Gli ingegneri del verso”, rinforzato dall’occhiello “Un calcolatore elettronico al posto dell’intelligenza del poeta”. L’articolo, che recensisce i “Cent mille miliards de poèmes” di Raymond Queneau e l’esperimento elettronico di Balestrini, utilizza i due avvenimenti letterari per una breve analisi della trasformazione del ruolo degli intellettuali nella società moderna:

“E’ un po’ il quadro della nuova vita intellettuale: venti, venticinque anni fa il letterato conservava ancora un’aria romantica, rispondeva, bene o male che fosse, a una categoria ben definita nel periodo fra le due guerre, insomma era ancora un letterato puro. Oggi quel letterato non esiste quasi più, gli stessi uomini che si sono formati allora o addirittura avevano un posizione di primo piano, erano delle guide, vivono ritirati, difendono una ragione, un modo di vivere che non è più sentito. Il gusto sperimentale ha sostituito tutto il resto, e, di solito, non si fanno più calcoli a lunga scadenza: il letterato dei nostri giorni crede meno all’eternità della sua opera e ha accettato di dividere dentro di sé, nella parte più gelosa del suo cuore, una convinzione del suo tempo: cioè, tutto è votato alla luce di un giorno, basta provare, basta tentare, e quello che conta è essere presente intorno al bancone degli esperimenti.” (Bo,1962).

Bo conclude il proprio articolo prendendo lo spunto da un’affermazione di Balestrini, che, nel resoconto pubblicato sull’almanacco, aveva collocato l’esperimento “elettronico” nel filone delle “ricerche di poesia combinatoria” inaugurato da Mallarmé. L’accostamento dell’opera del poeta francese a quella di Balestrini evidenzia, a giudizio di Bo, i limiti profondi della visione estetica degli “sperimentalisti” contemporanei:

“E’ possibile riallacciarsi al Libro di Mallarmé? Ma quel sogno non apparteneva soltanto a un giuoco di disposizione tipografica: era un po’ il segno di una concezione del mondo, di una vera e propria filosofia. Ora la nostra civiltà industriale, tutt’al più, ci fornisce dei soccorsi, degli aiuti ma sempre parziali, sempre pratici. Come tutte le audacie della tecnica, anche questa della poesia elettronica è fatta più per stupire che per servire l’uomo, là dove conta servirlo e aumentarlo.” (ibidem).

Anche Geno Pampaloni, in un articolo apparso con il titolo “Abbiamo anche la macchina per comporre poesie” su “Epoca” del 28 gennaio 1962, prende lo spunto dall’esperimento di Balestrini per effettuare considerazioni di ordine più generale sul destino della poesia nel mondo contemporaneo:

“L’esperimento non è in realtà nuovo del tutto, e richiama i giochi surrealisti che affidavano al caso l’incontro delle parole e la scintilla della poesia (il famoso cadavre exquis). Ma, ora che siamo arrivati sul terreno ‘industriale’ alla creazione di una simile poesia combinatoria, e, se si abbasseranno i costi di produzione, rischiamo di vedere i poeti equipaggiati ognuno con il suo calcolatore elettronico (o perché non un ‘Centro nazionale di poesia combinatoria’ presso l’Accademia dei Lincei?) occorre chiedersene il reale significato.” (Pampaloni, 1962).

Pampaloni rileva, a questo proposito, la differenza di tono e di contenuto tra la presentazione riduttiva di Balestrini ed il commento di Eco inneggiante alle “nozze tra l’arte e il Caso”, e conclude:

“Ma attenzione: se dobbiamo prendere sul serio il Tape Mark I, sarà bene non sottovalutare la disastrosa e ambiziosa distorsione che si annida in queste pur raffinate ‘operazioni’ sulla poesia, giacché esse muovono da un’estetica ‘programmata’, anteriore alla poesia, condizionante la poesia sino al punto da trasformarla in un sottoprodotto casuale, mentre la poesia, il fare poetico dell’uomo, è, per chi crede nella libertà e nella creatività umana, e noi tra questi, un primum. Il mondo cambia, si dice; ma non sappiamo se debba cambiare fino a questo punto.” (ibidem).

La maggioranza delle recensioni all’esperimento di Balestrini, come si è detto, considera la “poesia elettronica” come un segno dello svilimento dell’arte nella civiltà industriale, della crisi dei valori “umanistici” storicamente veicolati dalla poesia, conseguente alla subordinazione, in essa, dell’aspetto semantico a favore di quello tecnico-formale. Così Enrico Falqui sul “Tempo” dell’8 gennaio 1962, e Paolo Milano sull'”Espresso” del 21 gennaio dello stesso anno, che scrive:

“Qui si tocca il ‘punto zero’ degli esperimenti letterari, quello in cui i due estremi (poesia di puro arbitrio e poesia a macchina) si congiungono per negarsi a vicenda: come se un ‘action painter’, un ‘pittore del gesto’, cedesse il proprio pennello al braccio meccanico di un automa. Ma se l’artista d’avanguardia è oggi fortemente tentato di chiedere alla macchina ‘un’integrazione della sua opera creativa’ (Balestrini), molto più forte è su di lui l’attrazione dell’evanescente, del neutro, del nulla.” (Milano,1962).

Di segno diverso, se non altro per la maggiore attenzione dedicata all’analisi dei meccanismi combinatori utilizzati da Balestrini, è la recensione dal titolo “L’almanacco binario” pubblicata dal mensile “La nostra RAI” nel maggio del 1962, con la firma di Roberto Gianotti. Scrive Gianotti:

“Quanto (…) alla possibilità della macchina di comporre poesie, tutto sta evidentemente nel definire il termine “poesia”. Se chiamiamo così ogni successione di parole in cui non siano violate fondamentali norme sintattiche, che non presenti quindi due preposizioni di seguito o una discordanza nel genere ecc., non si vede perché la macchina non dovrebbe comporre poesie di tal fatta.


Senza dire che il gioco è abbastanza semplice allorché, come accade qui, gli elementi da combinare (…) sono già dei piccoli frammenti, in genere delle proposizioni, e nessuno di essi termina con una preposizione o con una congiunzione, tutt’al più con un verbo transitivo. Se ammettiamo poi qualche ‘ritocco’, anche i pochi incidenti (ad es. discordanze nel numero) vengono sanati.” (Gianotti,1962).

Ma l’articolo di Gianotti è interessante anche e soprattutto per un altro aspetto. E’ l’unica recensione, infatti, che prende in considerazione e discute la tesi di Eco, secondo la quale una delle funzioni principali dell’arte contemporanea sarebbe quella di fornire ai fruitori “traduzioni immaginative” della realtà “naturale” definita dalla scienza:

“Che poi la ‘letteratura combinatoria’ rifletta – almeno nei limiti in cui gli artisti riflettono o credon di riflettere un modello scientifico – la nuova immagine della natura (statistica, anziché deterministica), può essere vero. Ma l’entusiasmo destato dalle applicazioni dei calcolatori alla poesia resta un tardo frutto della fede nella scienza positiva.” (ibidem).

Altri critici traggono lo spunto dall’esperimento di Balestrini per soffermare la propria analisi sul rapporto fra la poesia d’avanguardia e l’industria culturale di massa, ma con un accento meno “apocalitticamente” umanistico e più attento agli aspetti socio-culturali del fenomeno. E’ il caso di Giorgio Barberi Squarotti, che sulla “Gazzetta del Popolo” dell’11 aprile del 1962 descrive le relazioni che legano la poetica di Balestrini alle esigenze dell’industria di massa in questi termini:

“Se i significati logici non contano più nulla, e l’unico interesse della poesia è l’intenzione di negare radicalmente la società attuale, colpendola nello strumento della comunicazione e del condizionamento delle idee e degli atti, cioè nel linguaggio, l’associazione delle formule e delle espressioni staccate da ogni continuità logica può essere fatta altrettanto bene dalla macchina che dall’uomo: i risultati, infatti, non mutano. (…). Ora, a noi sembra che questa protesta esasperata e violenta non sia, in fondo, che un altro atto di collaborazione segreta della cultura proprio con l’industria di massa, con le intenzioni più negative e più oppressive della società. Se un uso generale del linguaggio è possibile ritrovare in essa, questo è dato dalla sottile distruzione dei rapporti logici, per cui, ad esempio, i fatti sono esposti come staccati l’uno dall’altro, si negano i rapporti, la continuità delle vicende, si impedisce al lettore di capire la totalità della situazione, gli si suggerisce che il pensare e il trovare simiglianze e ragioni è un vizio, un errore, una retorica. Il linguaggio dell’industria culturale cerca di convincere che non bisogna chiedere perché le cose stanno così: semplicemente, stanno così, come sono descritte, ed è bene non andare più in là, non fare indagini.” (Barberi Squarotti, 1962).

Analogamente, anche Ferruccio Foelkel, su “Quartiere” del 31 marzo 1962, parla delle “conseguenze di definitivo livellamento nel linguaggio anonimo e impersonale entro cui nascondere o annullare le proprie responsabilità etiche”. Il problema, per Foelkel, non è quello di rifiutare in blocco l’ausilio della tecnica in campo artistico, in nome di un astratto umanesimo, quanto di valutare, situazione per situazione, il senso di un tale utilizzo:

“Il problema è perciò non tanto nella ‘tecnica’, quanto nella sua individuazione a carattere evasivo e, come ci pare in questo caso, neo-accademico. (…).


L’importante è, ci limitiamo a dire, che la poesia elettronica non si trasformi in una nuova, più sottile metamorfosi camaleontica dei gruppi intellettuali italiani, diuturnamente legati, da secoli, al potere imperante.” (Foelkel,1962).

Nelle recensioni al secondo esperimento elettronico di Balestrini, “Tape Mark II”, è quasi del tutto assente l’impronta sensazionalistica che aveva caratterizzato la maggior parte degli interventi citati in precedenza. Lo scandalo suscitato dal primo esperimento, anche per il venir meno dell’effetto novità, viene riassorbito; il discorso critico, certamente stimolato dal quasi contemporaneo convegno di Palermo, che sanciva la nascita del “Gruppo 63”, non limita la propria attenzione alla “macchina per fare poesie”, ma entra, con toni spesso polemici, nel merito dell’analisi della poetica di Balestrini.


Un intervento di Pietro Cimatti, apparso su “Tempo presente” nel dicembre 1963, indica in modo esemplare la virulenza dei toni con i quali, soprattutto negli ultimi mesi del 1963 e nel corso dell’anno successivo, si svolse il dibattito sulla neoavanguardia. L’articolo, significativamente intitolato “I bravi del neocapitalismo”, trae occasione dalla pubblicazione di “Come si agisce” per esporre considerazioni di ordine più generale sui rapporti tra l’avanguardia e l’industria culturale. Per Cimatti, la fortuna dei “Novissimi”, “intellettuali di tipo urbano e industriale”, è strettamente legata a quella del neocapitalismo, ed all’esigenza di quest’ultimo di cancellare ogni forma di espressione artistica vitale, e quindi potenzialmente critica, per ottenere un inaridimento delle coscienze:

“E’ naturale pensare che la poesia è un argine, antico per quanto sempre mal funzionante nella tradizione italiana, all’inaridimento delle fonti di libertà e di dignità (…). E non è certo a caso che proprio della poesia si tenti, su piano industriale, l’inaridimento e l’annebbiamento. Il boom dell’industria libraria non poteva accontentarsi di deprimerla, castigando le vocazioni a una circolazione senza uscita sul pubblico. Ora, i Novissimi svolgono, non so quanto coscienti e responsabili, quel ruolo di annebbiatori. Se sono mai partiti, dalla provincia, con una loro piccola invenzione, sono ormai da tempo arrivati a operare secondo una direzione che li supera e li adopera.” (Cimatti,1963).

E Cimatti non manca di sottolineare, a questo proposito, “la carriera che i Novissimi della prima ora hanno fatto e stanno facendo, l’approdo ai posti tranquilli dell’industria editoriale, ai giornaloni del MEC”. Ma tornando a Balestrini, Cimatti accosta l’esperimento elettronico a esempi poetici più o meno illustri di “cantori” del progresso tecnico ed industriale, per scagliarsi in una feroce polemica “ad personam”:

“Risalendo più indietro. Per non dire della mongolfiera del Monti, certo dalla satanica vaporiera di Carducci all’aeroplano di Marinetti e alla IBM dei Novissimi non c’è che del tempo, storico e culturale, immobilmente e pesantemente proseguito, le cui febbri periodiche assicurano di una vecchia malattia mai guarita e sempre rinviata. Ma Carducci era poeta. E Marinetti, almeno, un ‘temperamento’, generoso e disponibile. Balestrini è nulla. Ebbene, proprio in quanto nulla egli documenta, in maschera rivoluzionaria, la qualità di stravolgimento e di inaridimento verso cui staremmo incamminandoci, per mano ai persuasori.” (ibidem).

A questi livelli di polemica, era difficile attendersi una critica meditata dell’esperimento elettronico, considerato non come “opera” meritevole di essere analizzata, ma come “segno” (positivo o negativo) delle trasformazioni in atto nel mondo culturale italiano.


Una certa carenza di analisi specifica si ritrova anche nelle recensioni dedicate a “Come si agisce” da parte degli esponenti del “Gruppo 63″. Alfredo Giuliani, in un articolo pubblicato sull'”Avanti!” del 16 gennaio 1964, interpreta gli esperimenti elettronici in un modo a dir poco singolare, per quanto in linea con la sua ipotesi critica di una “vena claunesca” posta alla base della poesia di Balestrini:

“Le composizioni elettroniche contenute nel volume (…) non sono affatto poesie meccaniche, ma piuttosto una verifica ironica e addirittura una parodia del metodo che il poeta adopera comunemente.” (Giuliani,1964).

L’analisi più approfondita viene svolta nella recensione, dal titolo “Come agisce Balestrini”, pubblicata sul “Verri” nell’ottobre 1963 da Edoardo Sanguineti. Secondo Sanguineti, la “poesia elettronica” non può essere considerata come un momento episodico ed estraneo alla poetica di Balestrini, che si basa su un utilizzo della parola svincolata da ogni rapporto sintattico, decontestualizzata, pronta ad essere rimontata in “un patetico calcolo combinatorio”:

“La verità è che la poesia elettronica è, di tutte le sue ricerche, almeno in un senso ideale, ma certo anche secondo una tutta empirica cronologia, il naturale esito estremo.” (Sanguineti,1963).

Nel meccanismo combinatorio della sua poesia, precisa Sanguineti, “l’opera di Balestrini tende (…) a consumarsi, per natura, nella sua descrizione”. In altri termini la poetica di Balestrini, proponendo un modello di produzione astratto, basato su estrazioni e ricomposizioni del “già detto”, e potenzialmente disponibile ad infinite esecuzioni, pone tutte le basi necessarie perché queste ultime possano venire delegate alla macchina:

“Ricordo le prime poesie di Balestrini, che lessi, nel 1957, sopra il ‘Verri’. Oggi, a rileggerle in volume, si sente che vengono tanto prima del diluvio delle prove ultime, e che quel diluvio invocano (…). Balestrini è giunto davvero in fondo, senza esitazioni, a quel vicolo cieco che, fatalmente, lo attendeva. Ed è fortuna che del suo libro si possa dire, comunque abbia a prolificare in qualità di duro esempio, che non apre nuove strade: appunto per questo può riuscire, oggi, allegoria amaramente credibile del nostro mondo.” (ibidem).

Una posizione simile è espressa anche da Lamberto Pignotti, altro esponente del “Gruppo 63”, che su “Paese sera” del 6 dicembre 1963 sottolinea il rigido determinismo che lega, in Balestrini, la poetica alla poesia:

“Il rischio nella fattispecie è al limite quello della tautologia: se una poetica nasce per giustificare una poesia e per escluderne altre, è ovvio che tale poesia è poi giustificata da quella poetica, mentre le poesie che non cadono sotto la sua giurisdizione sono rigettate.” (Pignotti,1963).

Una recensione apertamente elogiativa a “Come si agisce” appare, a distanza di due anni, su “The Times Literary Supplement”, il 22 luglio del 1965. L’articolista, anonimo (ma Eco collaborava alla rivista dal 1963), offre al pubblico inglese una presentazione di Balestrini che suona in questi termini:

“Il signor Balestrini è uno dei ‘Cavalieri dell’Apocalisse’, la punta di diamante del movimento della post-avanguardia nella poesia italiana. Fece sensazione utilizzando nel 1963 i mezzi combinatori di un cervello elettronico, ed è certamente il più originale e dotato esponente dell’ultima generazione di poeti italiani.”

Dopo aver spiegato come Balestrini operi “contro gli abituali modi di pensare”, ed aver citato le sue multiformi attività sperimentali, l’anonimo recensore descrive gli esperimenti elettronici, definendo tra l’altro il primo verso di “Tape Mark I” come una “splendida fusione atomica”. Ma, sempre a proposito del primo esperimento, l’anonimo recensore si lascia sfuggire una piccola, voluta, inesattezza:

“E’ interessante notare che il signor Balestrini scelse tre brani da testi non scritti in lingua italiana (giapponese, inglese e cinese) e che diede alla stampa la versione italiana priva di punteggiatura, aggiungendo così automaticamente dell’ambiguità agli ingegnosi poteri combinatori dell’elaboratore.”.


 

Note al capitolo 3.


1)I versi sono corredati da questo commento di Giuliani:

“In questa poesia brani di giornale, frammenti di conversazione, còlti nel loro essere puramente lessicale e asintattico, sono spinti istericamente (talvolta con grande delicatezza) in un mare di ambiguità. Ad esempio, l’accenno alle ‘otto posizioni’ è un punto di passaggio dal precedente tema sessuale al morto che giace ‘con gli occhi supini’; ma è anche in relazione al ‘cono d’ombra’ (posizioni astronomiche). Del resto, questa osservazione – così come molte altre che si potrebbero fare (violando in un certo senso l’intimazione contemplativa e l’assoluta agibilità del testo) – non esaurisce evidentemente la capacità di significato non lineare delle immagini e dei loro stravolti lineamenti. Nella molteplicità di lettura vanno infatti considerati gli scambi grammaticali di numero e di genere e quelli di tempo e luogo. Perché la scelta di queste misure? ‘Per continuare’, lo dice il testo.” (Giuliani ed., 1961, p.159).

2)Ne è un esempio l’introduzione all’antologia dei “Novissimi”, dove Giuliani scrive:

“la vena claunesca di Balestrini s’è venuta sempre più rivelando nel fatto che a questi bits di parole già usate egli mescola, mediante assurde mosse sintattiche, i più involontari frammenti della comune conversazione (…) e a tale livello inserisce, quando gli capita, il particolare dotto o erudito, il passo di uno scrittore classico, del tutto destituiti dal loro valore contestuale. Il giuoco, offerto deliberatamente contro gli abituali modi di pensare, rigidi e grammaticali, ricorda, sotto i tratti eleganti e disimpegnati, l’angosciosa elusività di uno Scott Fitzgerald; cadrebbe in errore chi lo considerasse come un affare privato, talvolta piacevole ma in sostanza incomunicabile e gratuito. Stando, invece, a vedere gli sviluppi della sua pericolosa manipolazione linguistica, dal tono inconfondibilmente lirico-umoristico, si deve concludere che l’apparente gratuità di Balestrini ha un significato precisamente rivoluzionario. L’asintassia delle sue poesie è un pungolo che sprona il discorso ad accogliere i suggerimenti del caso, è una sensibilissima e inventiva forma di reattività agli elementi più strutturali di una lingua.” (Giuliani ed.,1961,p.28).

3)Sanguineti parla, a questo proposito, di una “capacità di significato espressivo indiscriminatamente conferibile, per puro gesto, alla totalità del dicibile, una volta che intervenga uno straniamento dal contesto pratico” (Sanguineti, 1966, p.85).


4)La presentazione editoriale in copertina recita:

“PER IL GROSSO PUBBLICO


Nanni Balestrini è stato il primo a scrivere versi servendosi (scandalo!) delle facoltà combinatorie di un cervello elettronico della IBM


PER LA BUONA SOCIETA’ LETTERARIA


è uno dei cavalieri dell’Apocalisse della post-avanguardia in Italia


IN QUESTO LIBRO


dal ‘Sasso appeso’ a ‘Classificazioni’, a ‘Lo sventramento della storia’, un’accanita volontà di sperimentare il materiale fantastico estratto dal cadavere del linguaggio di massa percorre le forme esasperate di una claunesca Vita nova, d’un ‘novissimo’ manuale di metrica”.

5)Scrive a questo proposito Sanguineti:

“L’obiezione immediata e facilissima è, naturalmente, che operazioni di quest’ordine, e cioè di questo disordine, di poesia per montaggio, visiva, elettronica, o tradizionalmente materializzata con neri inchiostri, ha senso una sola volta, la prima: esperimentata in un’occasione, essa finisce per assumere quel carattere, piuttosto fantascientifico che parascientifico, per il quale, nella mutevolezza delle combinazioni singole, nelle ripetute incarnazioni, nelle metempsicosi del processo produttivo e del suo principio formale, si ritrova, proprio come avviene nella deduzione verificante, sempre la medesima legge. Una volta accettata e compresa l’infinita possibilità di essa, la replica diviene necessariamente inutile, priva di contenuto conoscitivo, ridotta a mera riprova del già noto e del già accertato: l’infinita possibilità è la peggiore tra le cattive infinità.” (Sanguineti, 1964).

6)Le opere di Bense e Moles, in effetti, vennero tradotte in italiano solo in un periodo successivo; ma, a parte segnalazioni e recensioni apparse su riviste specializzate, “Opera aperta” di Eco e “Simbolo comunicazione consumo” di Dorfles (cfr.2.2) ne attestano la diffusione e la capacità di stimolo negli ambienti intellettuali legati al “Verri” ed alla neoavanguardia già all’inizio degli anni sessanta.




Appendice: I prodotti degli esperimenti.


1 – Dall'”Almanacco letterario Bompiani 1962″, p.151


TAPE MARK I

La testa premuta sulla spalla, trenta volte


più luminoso del sole, io contemplo il loro ritorno


finché non mosse le dita lentamente e, mentre la moltitudine


delle cose accade, alla sommità della nuvola


esse tornano tutte, alla loro radice, e assumono


la ben nota forma di fungo cercando di afferrare.


 


I capelli tra le labbra, esse tornano tutte


alla loro radice, nell’accecante globo di fuoco


io contemplo il loro ritorno, finché non muove le dita


lentamente, e malgrado che le cose fioriscano


assume la ben nota forma di fungo, cercando


di afferrare mentre la moltitudine delle cose accade.


 


Nell’accecante globo di fuoco io contemplo


il loro ritorno quando raggiunge la stratosfera mentre la moltitudine


delle cose accade, la testa premuta


sulla spalla: trenta volte più luminose del sole


esse tornano tutte alla loro radice, i capelli


tra le labbra assumono la ben nota forma di fungo.


 


Giacquero immobili senza parlare, trenta volte


più luminosi del sole essi tornano tutti


alla loro radice, la testa premuta sulla spalla


assumono la ben nota forma di fungo cercando


di afferrare, e malgrado che le cose fioriscano


si espandono rapidamente, i capelli tra le labbra.


 


Mentre la moltitudine delle cose accade nell’accecante


globo di fuoco, esse tornano tutte


alla loro radice, si espandono rapidamente, finché non mosse


le dita lentamente quando raggiunse la stratosfera


e giacque immobile senza parlare, trenta volte


più luminoso del sole, cercando di afferrare.


 


Io contemplo il loro ritorno, finché non mosse le dita


lentamente nell’accecante globo di fuoco:


esse tornano tutte alla loro radice, i capelli


tra le labbra e trenta volte più luminosi del sole


giacquero immobili senza parlare, si espandono


rapidamente cercando di afferrare la sommità.


 

2 – Da “Come si agisce”, pp. 213-230


TAPE MARK II (parte iniziale)


AB


chi mancava da una parte all’altra si libra ad ali tese


aspettando che finisca l’aria da respirare facendo finta


le parole non dette nella bocca piena di sangue tutto tace


fino ai capelli appiccica alla pelle non capiterà mai più


lo sgombero della neve ora gialla ora verde nessuno voleva restare


 


attraversando bocconi la distanza esatta per farne a meno


la folla camminava adagio non capiterà mai più le dita immerse


nell’istante inatteso montaci sopra ora gialla ora verde


l’aria da respirare aspettando che finisca i passi necessari


fino ai capelli l’estate fu calda nelle nostre tenebre


 


tutto tace nella bocca piena di sangue lo sgombero della neve


su tutta la strada i passi necessari perché non entrino i leoni


si libra ad ali tese sull’erba fuori l’estate fu calda


non capiterà mai più la folla camminava adagio da una parte all’altra


l’aria da respirare facendo finta immobili giorni


 


ora gialla ora verde montaci sopra fino ai capelli


nessuno voleva restare da una parte all’altra il tendine è spezzato


per farne a meno sputa anche il miele facendo finta


i passi necessari su tutta la strada la distanza esatta


non capiterà mai più le dita immerse guardando bene


[�]




Bibliografia


ALMANACCO (AA.VV)


1961 Almanacco letterario Bompiani 1962, Milano, Bompiani.


ANCESCHI,Luciano


1936 Autonomia ed eteronomia dell’arte, Firenze, Vallecchi. (ora Autonomia ed eteronomia dell’arte. Saggio di fenomenologia delle poetiche, Milano, Garzanti, 1963, pp.247).


1952 Linea lombarda, Varese, Magenta (la cui introduzione è poi riportata in Del barocco e altre prove, Firenze, Vallecchi, 1953, pp.321).


1956 “Discorso generale”, in Il Verri, I, autunno 1956.


1961 “Le poetiche del novecento in Italia”, in Momenti e problemi di storia dell’estetica, vol. IV, Milano, Marzorati, pp.1581-1732. (ora in Le poetiche del novecento in Italia. Studio di fenomenologia e storia delle poetiche, Torino, Paravia, 1973, pp.272).


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